La destra americana ha, da ieri, un nuovo eroe. Si chiama Scott Walker ed è – e resterà, per esplicita volontà popolare – governatore del Wisconsin, uno Stato che, a dispetto delle sue tradizioni progressiste, già in un passato non poi tanto lontano aveva regalato alla nazione un’altra indiscussa icona della reazione, il senatore Joe McCarthy, grande protagonista della caccia alle streghe comuniste – non per caso passata alla storia come “maccartismo” – dei primi anni ’50.  Ancora non si sa se – come nel caso del suo predecessore – il trionfo di Walker finirà per entrare, come nuovo “ismo”, nei dizionari del futuro. Ma certo è che lo scorso martedì, 5 di giugno, Scott Walker ha, come San Giorgio, infilzato (e forse definitivamente ucciso) quello che per il partito repubblicano è, da tempo, il più spaventoso dei draghi: “the Big Labor, un movimento sindacale che, per la verità, “big”, grande, già da tempo ha cessato d’essere.

Breve riassunto delle puntate precedenti. Nel novembre del 2010, Scott Walker aveva vinto la corsa per la poltrona di governatore sulla base d’una piattaforma che prevedeva drastici tagli alla spesa. Ed in particolare a quelli che Walker usa chiamare i “privilegi” – buone pensioni, assistenza sanitaria – dei dipendenti pubblici, unico settore dove i sindacati abbiano ancora un forza rilevante. Una volta eletto, tuttavia, Walker ha trasformato in politica di “annientamento” questa di per sé già molto controversa (e certo assai squibrata) linea di risanamento del bilancio. Ovvero: ha con appositi decreti di fatto annullato, per i lavoratori dello Stato, ogni diritto alla contrattazione collettiva. La risposta dei sindacati è stata massiccia e prolungata, provocando una paralisi che qualcuno è arrivato a definire “guerra civile”. Ultima tappa di questa capillare mobilitazione: un’elezione di ripudio del governatore (recall election, una pratica che vantava due soli precedenti nella storia americana), ottenuta con la raccolta di ben un milione di firme e subito diventata un caso nazionale.

Nonostante la gravità degli abusi commessi da Walker e dalla maggioranza repubblicana, non pochi, anche tra i democratici, avevano giudicato avventata una reazione che si scontrava con una realtà subito messa a nudo dai sondaggi, e poi rivelatasi inalterabile nel corso della campagna elettorale: a prescindere dal giudizio sull’operato del governatore, infatti, il 60 per cento degli elettori del Wisconsin si diceva contrario ad una recall election che non fosse determinata da gravi violazioni  (in senso penale) della legge. I fatti hanno, infine, confermato questi dubbi. Walker non solo ha vinto, ma ha vinto con un margine superiore (sia pur solo d’un soffio) a quelli con i quali aveva, due anni or sono, sconfitto il suo rivale democratico. Ed è ora trionfalmente entrato, coronato d’alloro, nella galleria degli eroi della “libertà di lavoro”, secondo solo al Ronald Reagan che, esattamente trent’anni fa, distrusse il Patco (il sindacato dei controllori di volo) dando inizio al progressivo ma inesorabile declino del movimento sindacale americano.

La prima domanda che quasi tutti si sono posti nell’apprendere i risultati del Wisconsin è inevitabilmente stata: quali saranno le conseguenze di questo trionfo repubblicano sulle presidenziali del prossimo novembre? E la risposta, affidata a molto credibili sondaggi realizzati parallelamente agli exit poll, è stata a suo modo paradossale: nessuna conseguenza, almeno in termini immediati. Perché avessero dovuto gli elettori del Wisconsin votare per eleggere il presidente anziché per “ripudiare” il governatore, avrebbero dato a Obama un vantaggio su Romney analogo – sette punti – a quello ottenuto da Walker.

E tuttavia del tutto evidente è come il voto del Wisconsin abbia un peso che va, per molti aspetti, ben oltre le elezioni presidenziali. Perché è la dolorosa conferma d’una tendenza – quella dell’agonia del movimento sindacale – destinata ad approfondirsi. E soprattutto perché la netta vittoria di Walker – una vittoria che quasi certamente spingerà altri governatori repubblicani a seguire la sua politica di annientamento – è stata l’impietoso specchio d’uno stato dei rapporti di forza. Della forza del danaro, in particolare. O meglio: di quella dei “moneyed interests”, gli interessi di chi ha denaro, che Thomas Jefferson aveva individuato, già agli albori della nazione americana, come la più grave minaccia per la nascente democrazia. Mesi fa, una storica decisione della Corte Suprema la Citizens United v. Federal Election commission – ha aperto le porte al flusso incontrollato dei contributi elettorali (tornerò più in dettaglio sull’argomento). Ed il Wisconsin è stato, per molti aspetti, il primo banco di prova di questa nuova realtà, riempendo i forzieri di Walker con somme quasi otto volte superiori (e per due terzi provenienti dal’esterno dello Stato) a quelle raccolte dai sindacati.

La vittoria di Walker – democraticamente ottenuta – ci dice dunque una cosa molto semplice. Semplice e nefasta: che, in Wisconsin, la democrazia ha perso e la plutocrazia (la forza di una minoranza ristretta, ma ricchissima) ha vinto. O meglio, in termini più generali: che la democrazia perde e che la plutocrazia vince.  Proprio in questi giorni à apparso, nelle librerie, un libro – “The Great Divergence”, di Timothy Noah, forse il più completo e bello finora scritto sul tema – che analizza le ragioni per le quali negli Usa la forbice tra ricchi e poveri è diventata, negli ultimi trent’anni, un abisso che minaccia di alterare la stabilità del sistema. Ed individua la prima di queste ragioni proprio nella perdita di forza dei sindacati.

Il Wisconsin ci dice, in sostanza, che anche qualora – cosa tutt’altro che improbabile – a novembre dovesse rivincere Obama, l’America continuerà camminare in direzione della diseguaglianza. E dell’ingiustizia.

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