Le anticipazioni non lasciano spazio a dubbi. Il ministro Francesco Profumo imbocca la strada dell’“eccellenza” per riformare scuola e università, introducendo premi riservati al 5% degli studenti e al 20% dei docenti più “meritevoli”. Alle accuse di elitarismo ha risposto: “Dare un riconoscimento a chi eccelle vuol dire mettere i meritevoli al traino dell’intera classe e innalzare il livello medio”. Sembra vero: ma lo è? Lasciamo da parte gli evidenti problemi di classificare le persone e proviamo a pensare: cosa succede all’ambiente di studio e di lavoro se i premi sono riservati al massimo a uno studente su venti e a un docente su cinque?
Oggi nella mia facoltà il clima è sostanzialmente collaborativo. Lo studente che perde una lezione o che non afferra un concetto sa di poter contare anche sui compagni di corso per avere appunti e delucidazioni. A Fisica Beach (il cortile dell’istituto) gli studenti studiano e ripetono in gruppo, apprendendo dialetticamente i concetti e il modo migliore per esprimerli. Se un docente rileva un corso riceve in dote dal predecessore il suo prezioso materiale didattico, affinato da anni di esperienza. Nella ricerca la collaborazione è pratica comune: se ho bisogno di informazioni su una tecnica di misura so che i colleghi mi trasmetteranno competenze che sono frutto di anni di impegno e fatica, permettendomi di lavorare in condizioni ottimali.
Ma ecco che arrivano gli esclusivi e profumati premi a mettere i più collaborativi in conflitto di interessi. Lo studente che insiste nel condividere la sua bravura si dà la zappa sui piedi: gli altri, grazie al suo aiuto, potrebbero passargli davanti in classifica e fargli perdere l’accesso (riservato al top 5%) alle assunzioni agevolate da sgravi fiscali. I docenti che continuano ad essere disponibili rischiano di aiutare i colleghi ad entrare al loro posto nel 20% che si intasca i soldi.. di certo non è un incentivo a fare squadra!
Il problema è che il “merito a numero chiuso” non ci mette in competizione con noi stessi, ma l’uno contro l’altro: essere corretti e collaborativi diventa un lusso, che molti non potrebbero permettersi. La rottura del clima di collaborazione ha poi inevitabili ricadute su didattica e ricerca. Invece di sfruttare le sinergie si viene indotti all’individualismo: inoltre escludere a priori i quattro quinti dei docenti dalla premialità sarà demotivante per molti, e per una buona didattica e ricerca la motivazione è semplicemente indispensabile.
A conferma della perniciosità dell’idea, per quel poco che so questa pratica non è molto diffusa nel settore privato: a chi lavora per obiettivi viene dato semplicemente un traguardo da raggiungere. Superando il traguardo ottengono il premio, a prescindere dalla prestazione dei colleghi, ed è puro buonsenso: si evita che impieghino buona parte del tempo a farsi le scarpe tra di loro!
Come possa un ex-professore ed ex-rettore proporre un meccanismo così controproducente è un mistero. Guardando il contesto si direbbe che questa follia non sia casuale: di certo ci divide tra “premiati” e “mazziati”, e gli antichi romani ci insegnano che dividere è il il primo passo per comandare. Il merito a numero chiuso spinge l’università pubblica, in un precipizio fatto di guerre intestine che ne degradreranno la qualità, giustificando a posteriori il processo di dismissione/privatizzazione: alla faccia dell’utilità pubblica e della ricerca di base.
Profumo fa pendere di fronte al nostro naso la carota, ben sapendo che in questo modo si guidano gli asini. La speranza è una sola: che studenti e docenti rispediscano la carota avvelenata al mittente salvando, come sempre dal basso, la scuola e l’università italiana e con esse qualcosa di più importante. E’ ormai chiaro che nel mirino dei predicatori della meritocrazia c’è un intero modo di vivere: la vita sociale, collaborativa, affettiva, empatica e solidale. In una parola: la vita umana.