Scuola

Profumoleaks

A leggere le bozze trapelate, le proposte del ministro Profumo non sembrano in grado di affrontare le malattie croniche della scuola secondaria italiana. Per rimuovere gli ostacoli economici alla prosecuzione degli studi per gli studenti “capaci e meritevoli” servirebbero borse di studio adeguate, riservate a giovani di umili origini sociali, attribuite meritocraticamente e indipendentemente dal tipo di scuola secondaria frequentata. E bisognerebbe avventurarsi con più coraggio sul terreno delle quote riservate. Cambia ancora il reclutamento dei docenti universitari.

di Daniele Checchi 05.06.2012, lavoce.info

Assistiamo in questi giorni alla Profumoleaks: dai palazzi ministeriali sono filtrate la settimana scorsa almeno tre versioni di una bozza di uno “Schema di decreto legge recante misure urgenti per la valorizzazione della capacità e del merito nell’istruzione, nell’università, nell’alta formazione artistica, musicale e coreutica e nella ricerca”. Non è nostro costume seguire e commentare le bozze dei documenti governativi, anche perché normalmente subiscono rimaneggiamenti sostanziali in corso d’opera. Tuttavia, la sostanza delle diverse versioni del documento è indicativa di una filosofia che vorremmo poter discutere. Dei 25 articoli di cui si compone, ci limiteremo a commentarne due, uno relativo alla scuola e l’altro all’università.

Non basta lo studente dell’anno
Il primo riguarda la previsione dell’articolo 3 secondo la quale le scuole secondarie di secondo grado sono richieste di individuare dal prossimo anno lo studente dell’anno tra coloro che conseguono il diploma di maturità con una votazione di almeno 100/100, tenendo conto “(…) della media conseguita negli ultimi tre anni e dell’impegno sociale, nonché della situazione economica della famiglia”. Il conseguimento di tale titolo dà diritto a una riduzione delle tasse universitarie di almeno un terzo (solo nelle università pubbliche) e a una carta identificativa “Iomerito” cui il ministero potrebbe voler aggiungere prestazioni economiche aggiuntive.

Cosa ci si può attendere da una norma di questo tipo? Sicuramente non un recupero della dispersione scolastica né tantomeno un innalzamento della media dei risultati, due malattie croniche che affliggono la scuola secondaria italiana. Ci si può forse attendere una sferzata competitiva tra i migliori studenti di ogni scuola, probabilmente attratti dalla pubblicità connessa al conseguimento del titolo. Per altro, non si tratta di una novità nel panorama legislativo italiano: il governo precedente aveva già introdotto un premio per i migliori diplomati, a cui si affiancava l’obbligo di comunicazione al ministero dei diplomati eccellenti, con la creazione di un apposito album (vedi http://www.indire.it/eccellenze/). (1)

Se il ministro Profumo era interessato a rimuovere gli ostacoli economici alla prosecuzione della carriera degli studi per gli studenti “capaci e meritevoli” (articolo 34 della Costituzione), forse esistevano sistemi più efficaci.

È infatti evidente che un assegno o uno sconto di 600 euro non rappresenta un incentivo sufficiente a indurre la scelta ben più impegnativa di iscrizione all’università. Questo sito ha ospitato in varie occasioni stime dei costi di una carriera universitaria, che superano di venti volte tale consistenza qualora si voglia tener conto anche dei costi opportunità. Allora, lo strumento più adatto era la creazione di borse di studio adeguate riservate agli studenti di umili origini sociali, attribuite meritocraticamente all’interno di quel sottogruppo di studenti e indipendentemente dal tipo di scuola secondaria frequentata. Si obbietterà che il concetto di “utili origini sociali” è troppo vago, e che gli evasori fiscali rischierebbero di ottenere le borse.
È facile risposta che con l’Isee si corregge parzialmente a questa carenza, che si può tener conto dell’istruzione dei genitori come miglior indicatore dello svantaggio sociale e infine che la pubblicità del concorso dovrebbe scoraggiare dalla partecipazione tali persone. Tali borse dovrebbero essere di livello adeguato da permettere agli studenti poveri ma meritevoli di frequentare l’università in altra città e dovrebbero coprire le tasse sia per le università pubbliche sia per le università private. Solo così si aprono prospettive nuove che rimuovono realmente gli ostacoli.

Inoltre la selezione non può essere affidata alle singole scuole, pena l’assoluta disomogeneità dei criteri di selezione. La dizione che le scuole “debbano tener conto” senza indicare pesi e misure equivale a una vana petizione di principio. Se il ministro voleva andare in aiuto degli studenti più meritevoli che provengono da ambienti sociali culturalmente svantaggiati, allora avrebbe dovuto più coraggiosamente avventurarsi sul terreno delle quote riservate. Nei percorsi scolastici per nostra fortuna le ragazze non sono una componente svantaggiata. Ma lo sono in media le seconde generazioni degli immigrati, che affollano la formazione professionale. Perché non riservare la scelta dello studente dell’anno al miglior diplomato di un istituto professionale, purché nato da almeno un genitore nato all’estero? Le analisi statistiche ci dicono che costoro sono quelli che hanno una probabilità minima di proseguire all’università. Se la politica per il merito ha qualche possibilità di efficacia, è qui che occorrerebbe lavorare.

Università: cambia ancora il sistema di reclutamento
Un altro aspetto della bozza che suscita perplessità riguarda l’università ed è la previsione contenuta nell’articolo 17, in cui si prende atto della incapacità (ministeriale) di attivare le procedure per il conferimento delle abilitazioni nazionali (nonostante i ripetuti annunci di attivazione entro il 31 maggio 2012) e il ritorno ai concorsi locali, seppur con correttivi (di efficacia incerta, come ha giustamente commentato Andrea Ichino sul Corriere della Sera del 5/6/2012).

Quello che sinceramente stupisce di questa mossa è la non considerazione dei possibili effetti dannosi sul morale che la scelta normativa può produrre. Anche a rischio di tediare il lettore, vale forse la pena di ricordare i cambiamenti intervenuti nella modalità di reclutamento del personale universitario degli ultimi quindici anni. Gli anni Novanta vedevano l’espletamento di concorsi nazionali per un numero di posti prefissati centralmente a opera di commissioni scelte con un meccanismo misto di selezione e votazione da parte dell’intero corpo accademico appartenente agli stessi settori scientifico-disciplinari.
Si è successivamente passati (legge 210/98) a concorsi gestiti localmente da commissioni elette, che attribuivano un numero variabile di idoneità (inizialmente tre, poi ridotte gradualmente a due e a una), all’interno delle quali le università avevano facoltà di scelta. La formazione delle commissioni è poi stata modificata nel 2009 ((Dm 27/3/09) da elettiva in sorteggiata. Nel frattempo era stata emanata la norma relativa alla introduzione del sistema delle abilitazioni nazionali (Dl 6/4/2006, n.164 “Riordino della disciplina del reclutamento dei professori universitari, a norma dell’articolo 1, comma 5 della legge 4 novembre 2005, n. 230” pubblicato in Gu n. 101 del 3/5/2006) che attende ancora attuazione.

È evidente da questa veloce carrellata che il legislatore italiano ha idee contraddittorie (o forse semplicemente confuse) su quale debba essere il sistema preferito di reclutamento del personale universitario. Vale però la pena di ricordare che ogni sistema di reclutamento lancia messaggi agli aspiranti professori, in riferimento al grado di meritocraticità della selezione che ci si può attendere, e induce quindi comportamenti che hanno conseguenze nel tempo sulla pianificazione delle carriere. Che un sistema universitario in generale recluti attraverso meccanismi di cooptazione è innegabile e forse anche ineludibile (sicuramente non è specificità del solo sistema italiano). Il problema diventa allora quello di definire qual è la comunità scientifica di riferimento, se quella della famiglia, del dipartimento locale, quella dell’ateneo di riferimento, quella della comunità accademica nazionale o quello della comunità internazionale. (2) 

Il voler contemperare queste esigenze (per esempio con una commissione composta da 2 membri interni, 2 membri esterni sorteggiati nella comunità nazionale e 1 membro sorteggiato dalla comunità internazionale) senza effettuare una scelta di responsabilità finale produce solo pasticci, e può condurre alla paralisi prima ancora di cominciare. Il fatto che poi a posteriori l’Anvur debba esercitare un controllo di merito, con eventuale sanzione di riduzione delle quote di Fondo di finanziamento ordinario (in un paese che ha visto recentemente il governo in carica erogare l’Ffo a ridosso della fine dell’anno di vigenza) appare quasi come una foglia di fico a copertura della mancanza di un disegno strategico.

Se si crede che i dipartimenti possano esser valutati, premiati o puniti, allora li si lasci liberi di scegliere il personale che preferiscono con i criteri che ritengono più opportuni. Se non si crede che i dipartimenti vengano realmente puniti dai loro atenei per la bassa qualità della ricerca che svolgono, allora si tenga fisso il principio del concorso nazionale, limitando dal centro il numero delle idoneità erogabili. Quello che viene proposto nella bozza di documento non scioglie il dilemma, producendo soltanto incertezza sugli assetti futuri, che alimenta ulteriormente gli incentivi per i cervelli più promettenti ad andarsene all’estero.

 

(1) Decreto legge 29/12/2007, n. 262 “Disposizioni per incentivare l’eccellenza degli studenti nei percorsi di istruzione” pubblicato sulla GU n. 19 del 23-1-2008.
(2) Si veda per esempio al riguardo “Academic Dynasties: Decentralization and Familism in the Italian Academia” di Ruben Durante, Giovanna Labartino, Roberto Perotti, NBER Working Paper No. 17572/2011