Paradiso, inferno più ritorno. Ecco Hopper in his own words, la biografia documentaria di Dennis Hopper in anteprima nazionale, ad aprire ufficialmente l’ottava edizione del Biografilm festival, dall’8 al 18 giugno, tra le sale del cinema Odeon e del cinema Lumiere di Bologna (qui la presentazione ufficiale dell’edizione 2012)
Dennis sornione e sfuggente con le sue (poche) parole si racconta all’occhio della cinecamera di Cass Warner, nipote di quel Harry Warner, immortalato nella saga dei produttori hollywoodiani di famiglia – The brothers Warner – scorso al Biografilm di qualche anno fa. Immagini risalenti a prima della morte di Hopper, quindi, pre 2010 quando il ribelle e anticonformista attore/regista della New Hollywood che votava repubblicano, morì di cancro alla prostata.
Tra una battuta del nostro seduto nel salotto di casa e parecchi flashback cinematografici/fotografici, la vita del piccolo Dennis, nato a nel 1934 a Dodge City in Kansas, corre come un trenino delle cose perdute e ben fatte, parallelamente alla storia di una Hollywood del dopoguerra che tenta di rinascere con la magniloquenza del technicolor, poi s’imbatte nella controcultura, la sfrutta e la assorbe, infine fa tornare tutti nei ranghi.
Ecco allora che fa più impressione come il grande mostro del capitalismo cinematografico mondiale si sia mangiato Dennis Hopper e Jack Nicholson, e in misura molto minore Peter Fonda. Parliamo del trio di Easy Rider (1969) che, a dire il vero, e come ci fa abilmente notare la Warner, non è un film che piomba come un fulmine a ciel sereno nella carriera d’attore di Hopper.
Prima, negli anni cinquanta, ci sono Gioventù bruciata e Il Gigante, James Dean e Liz Taylor, la ribellione e la norma. Il calderone dei sogni cinematografici che tutto consente e tutto distrugge e che, infatti, lascia i suoi figliastri più iconoclasti e strafottenti a rifargli il trucco della contestazione. Hopper comparsa sui set western, guadagna la pagnotta anche dopo l’lsd e gli acidi dei chopper sfrontati di quell’incredibile trip cinematografico che è stato Easy Rider, giocandosela come cattivo ne Il grinta con un John Wayne che parla solo di sbieco e con la pistola. Altro che Actor’s studio. The last movie (1971), pura follia controcorrente di Hopper alla seconda regia dopo Easy Rider, è subito fiasco e immersione nell’oblio. Fino a che nel 1977 Wim Wenders lo richiama dall’Europa per lo straordinario L’amico americano e Francis Ford Coppola lo porta nella giungla vietnamita, anzi filippina, per Apocalypse now (1979) a fare da anfitrione ad un Martin Sheen in procinto di incontrare Marlon Brando. In mezzo, come si racconta nel documentario, c’è l’abisso della droga. E dopo, nonostante tutto, il ritorno alla quasi popolarità, con lavori da protagonista, Velluto blu di David Lynch, e da produttore, Colors, interprete Sean Penn.
Non che il documentario di Cass Warner non sia storicamente interessante, ma l’appiattimento delle singolarità di Hopper, la piallatura di ogni formidabile cantonata o successo del nostro, diventano inevitabili e soprattutto identiche tappe di un sistema che pare già scritto in partenza e senza troppe concessioni all’inaspettato.
Ecco allora che una riflessione su questo festival dall’ottimo successo di pubblico passa necessariamente dalla funzione del mezzo più che dai temi toccati. Ovvero le biografie di grandi o piccoli personaggi, documentarie o di finzione, diventano perlopiù strumenti di conoscenza, di analisi e approfondimento storico. In una curiosa sete di sapere che passa attraverso i biopic.
Qui l’intuizione geniale del direttore Andrea Romeo, alcuni anni orsono; ma qui anche il limite di una manifestazione che inglobando una quantità enorme di titoli, perde un po’ per strada lo spirito del focus e dell’approfondimento, fiore all’occhiello delle primissime edizioni. Per ogni informazione: www.biografilm.it