Il 4 giugno 2012 è stato il giorno del tanto atteso ritorno in Italia dei seminali Soundgarden, a due anni dalla reunion inaugurata allo Showbox di Seattle nell’aprile del 2010. A seguire il concerto c’era Luca Villa, cultore della musica grunge nonché fondatore del più importante sito italiano dedicato ai Pearl Jam. Questo è il suo racconto dell’evento.
Nonostante si tratti a tutti gli effetti di uno show della band, ad affiancare i “grandi vecchi” di Seattle sono stati chiamati altri quattro gruppi che, nel complesso, delineano un cartellone davvero degno di nota, anche se forse non del tutto apprezzato dal popolo molto in vena di “nostalgia grunge” che si avventura tra i capannoni della Fiera di Rho, a Milano.
I Triggerfinger, rock band belga, scaldano il pubblico dal primo pomeriggio, seguiti dai Gaslight Anthem dal New Jersey, che propongono un ottimo set, purtroppo parzialmente rovinato dall’atteggiamento, spesso ai limiti dell’educazione, di una piccola parte del pubblico che comincia pigramente ad affluire. La setlist proposta è un riuscito mix tra il loro disco rivelazione, The ’59 Sound, alcuni cavalli di battaglia come le più recenti American Slang e Queen Of Lower Chelsea e diversi ripescaggi dal loro primo album e dall’ Ep Senor and The Queen C’è anche l’occasione di sentire per la prima volta un paio di pezzi dal nuovo disco, Handwritten in uscita a fine luglio (45 e Biloxi Parish). È poi il turno dei riformati Afghan Whigs, capitanati da Greg Dulli, gloria dell’underground americano e “vera” alternative band (sempre che la definizione “alternative band” abbia mai significato qualcosa, sicuramente si addice agli Afghan) che ha saputo mischiare il rock con il soul e la musica black: notevole l’affiatamento tra i componenti della band, se si pensa che il loro primo show dopo oltre dieci anni di split risale a soli dodici giorni prima, a New York. I Refused, hardcore band svedese anch’essa riformatasi dopo oltre dieci anni, propongono come da copione uno show infuocato, travolgente e dinamitardo. Tra slogan anti capitalisti e pezzi tratti dal loro disco migliore, The Shape Of Punk To Come, se da una parte spaccano i timpani ad alcuni spettatori impreparati, dall’altra convincono sicuramente i tanti fans accorsi per quella che al momento è la loro unica esibizione nello Stivale.
Verso le 21:30, sul palco illuminato da luci viola e blu, entrano i Soundgarden, accolti dal boato della folla (stimata sulle 5.000 presenze). Introdotti dalla memorabile Searching With My Good Eye Closed, tratta da Badmotofinger, i quattro di Seattle appaiono subito in ottima forma: sono passati 16 anni dalla loro ultima esibizione in Italia, ma pare che il tempo si sia quasi fermato. Certo, c’è qualche capello bianco in più sulla testa di Kim Thayil e qualche chilo in più addosso a Ben Shepherd, ma vedere un Chris Cornell in così splendida forma fisica e artistica e un Matt Cameron gran maestro cerimoniere del sound, è una festa per gli occhi e per le orecchie. Dopo Spoonman la band snocciola con assoluta scioltezza pezzi dalla prima produzione come la potente Gun, il loro primo singolo per l’etichetta Sub Pop Hunted Down e le epiche Loud Love e Ugly Truth. C’è spazio anche per la nuova Live To Rise, incisa per la colonna sonora del film The Avengers, pezzo certamente non memorabile, ma che in territorio live guadagna in spessore e potenza.
Il resto è tutto un susseguirsi di emozioni: Fell On Black Days, l’apocalittica Blow Up The Outside World (sostenuta dal coro del pubblico, che sembra non finire mai) e una serie di classici come Outshined, Rusty Cage, My Wave e la generazionale Black Hole Sun. Menzioni speciali per le rese perfette di The Day I Tried To Live, Superunknown (che tiro, Cameron, che tiro!) e la superlativa 4th Of July. Solo qualche istante di pausa e la band torna sul palco per un sostenutissimo encore finale con Jesus Christ Pose (anche qui da segnalare un Matt Cameron in grande spolvero) e Slaves And Bulldozers, che chiudono il concerto.
I dubbi sulla voce di Cornell e sulla sua capacità di cantare in modo ancora dignitoso i vecchi pezzi della sua band madre sono spazzati via da una performance davvero buona, dove la sezione ritmica (il vero fulcro della band) è apparsa perfetta – l’alchimia tra Cameron e Shepherd è ancora intatta e ai massimi livelli – mentre Kim Thayil ha impreziosito ogni pezzo suonato.
Dicevamo prima, “pare che il tempo di sia quasi fermato”. Quel “quasi” vuole sottolineare come rispetto alle incerte performance dell’ultimo triennio di attività della band, questa reunion ci riconsegni dei Soundgarden più in forma che mai, almeno dal vivo. La domanda può sembrare scontata: “Perché allora si sono divisi nel 1997?”. Avrebbero potuto continuare, prendersi un periodo di riposo, pubblicare dischi solisti e side projects, continuando a suonare insieme, ma si entrerebbe nel campo dell’ipotetico e questo non ci interessa. Interessa molto di più aver visto una band davvero in forma rientrare dalla porta principale nell’olimpo dei grandi nomi del rock. L’altra domanda che tutti si fanno è: come suonerà il nuovo disco? Cosa ci riserverà il loro futuro? Domande alle quali, al momento, nessuno può rispondere. Non resta che gioire per questo ritorno. Bentornati Soundgarden. Ci siete mancati, bastardi.