Venerdì scorso ho partecipato a Roma al convegno “Riforma dell’omicidio stradale” organizzato dall’Associazione italiana familiari e vittime della strada. Non è la prima volta che parlo qui di questo tema, e credo che non sarà nemmeno l’ultima. Quello che faccio oggi, per lanciare di nuovo uno spunto di discussione, è postare quello che mi sono sentita di dire durante quel convegno. Il ragionamento che vorrei provare a fare qui è sulle parole, il riconoscimento e la considerazione, e quindi il peso che vogliamo attribuire a questo tipo di reato.

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Sono passati quindici anni da quando, ragazzina, i banchi, a scuola, intorno a me, intorno a noi ragazzi, studenti, hanno cominciato a essere vuoti: se ne andavano amici, cugini, fratelli, sorelle, le loro vite, e anche un po’ le nostre. Se ne andavano a decine, a centinaia nelle città italiane; a migliaia, negli anni, in tutto il paese. Se ne vanno ancora oggi. Via dalla loro vita, via dalla nostra, eppure mai via dalla nostra. La sottolineo, la ripeto, questa parola, vita, perché è quella a cui tutti, non solo oggi, ma oggi in particolare, guardiamo.

Pensarla, ragionarla, parlarla ci spinge a pensare, ragionare e parlare di proposte concrete, di passi, in avanti, da fare insieme. Sulla quarta di copertina di “Strage continua” c’è una frase di Cesare Pavese: «Ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione».

Sono passati quattro anni da quando “Strage continua” è stato pubblicato. Quattro anni da quando, in una sala qui vicina, a Palazzo Marini, Pina Cassaniti Mastrojeni diceva – era il 1 aprile 2008 – «I tempi sono maturi perché qualcosa cambi nella giustizia, nell’assistenza alle vittime e nella prevenzione. La situazione è troppo grave: i politici non possono fingere di non sapere, di non vedere!»

Ogni giorno allora in Italia morivano 16 persone, questo almeno rifacendosi all’ultimo rapporto Istat Aci allora disponibile, vale a dire quello del 2006. Oggi, ogni giorno, in Italia muoiono ancora 11 persone, questo sempre rifacendosi all’ultimo rapporto Istat Aci disponibile, vale a dire quello riferito all’anno 2010 e diffuso nel novembre 2011. Allora, e soprattutto ancora prima, parlavamo ancora di “incidenti stradali”, una parola, quella, “incidente”, che sembra portare in sé una risposta che si rifà alla casualità, non alla responsabilità. Oggi invece discutiamo di “omicidio stradale”.

Sono due passi in avanti di fondamentale importanza: i morti sulla strada non sono morti ineludibili, infatti sono diminuiti. Questo intanto per cominciare a rispondere a chi ancora oggi crede che i morti sulla strada sempre ci sono stati e sempre ci saranno.

Oggi parliamo di vita e degli omicidi stradali che la negano, non di incidenti. Parliamo di responsabilità. Chiediamo un’assunzione di responsabilità.

Roberta De Monticelli nel primo paragrafo del suo libro “La questione civile”– un libro importante – pubblicato da Raffaello Cortina Editore, scrive: «Ci sono momenti, nella vita di un uomo, in cui si dispera del proprio valore. Ce ne sono altri, in cui sembra che l’esistenza di nessuno possa più avere alcun valore. Per molti di noi questo è un momento come il secondo. La scena politica italiana può mutare anche radicalmente, ma non muterà in profondità l’assetto della nostra vita civile se non faremo i conti con questo sentimento sordo e muto che già da troppo tempo erode le nostre vite, quasi svuotandole dall’interno. È questa erosione di senso, di speranza, e quindi di coraggio e di fiducia, e quindi di slancio creativo e di felice dedizione all’opera, sia la propria o quella di molti – è questo respiro che ci manca a ridurre in cenere i nostri giorni. Forse a ridurre anche la crescita del PIL. E certamente a togliere forza e credibilità alle parole stanche, ripetitive, opache dei leader politici che dovrebbero dar forma a una stagione nuova della nostra Repubblica».

Così dice Roberta De Monticelli ne “La questione civile”. E noi lo sappiamo quanto quella della strada, della sicurezza stradale, sia una battaglia di civiltà. Il tasso di civiltà di un paese si misura dalla considerazione che ha delle vittime della strada, della sicurezza delle sue strade e dalle risposte che la giustizia sa dare. Io non sono un tecnico, né un giurista. Il mio mestiere è mettere in correlazione i fatti e fare domande.

E le domande sono:

E’ aumentato o no il tasso di civiltà di questo paese in relazione al rispetto delle regole in strada? È aumentato o no?

Che senso ha parlare di legalità se poi chiudiamo uno, due, tre, quattro… – aiutatemi a dire quanti – occhi sulle regole della strada?

Che senso ha girarci ancora tanto intorno quando dai primi anni Duemila in Francia si parla di “violenza stradale”?

Dove sta la maturità di un paese? Un paese che sa rilevare, intervenire per elaborare e, non mi stancherò mai di dirlo, individuare strumenti di composizione. Senza giustizia non esiste riconciliazione.

Alla luce di questo, che senso hanno le parole scritte sull’acqua? Siamo così stanchi, ma non abbastanza stanchi. Non abbastanza per non chiedere uno scarto in avanti, da fare insieme, nella convinzione che il nostro paese possa trovare una nuova prospettiva anche attraverso l’introduzione di reati come l’omicidio stradale.

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