Sarà la Corte Costituzionale, il prossimo 20 giugno, a pronunciarsi sull’aborto per riesaminare l’articolo 4 della legge 194 del 1978 che disciplinano le circostanze che legittimano l’interruzione di gravidanza. Che in alcune regioni italiane è quasi proibitiva se si pensa che nel Lazio oltre il 90% dei medici è obiettore e una struttura pubblica su tre non esegue l’intervento. Sfiora il 70% invece la quota di ginecologi che si rifiutano di praticare l’aborto per una questione etica. Il verdetto è atteso e sulla rete è partita una mobilitazione per difendere il diritto all’aborto.
I giudici della Consulta sono chiamati a esaminare l’eccezione sollevata dal Tribunale di Spoleto dopo la richiesta di una minorenne di abortire senza coinvolgere i genitori. Il contrasto rilevato dal giudice minorile riguarda quanto indicato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo sulla tutela assoluta dell’embrione umano. Secondo il giudice la facoltà prevista dall’articolo 4 della legge 194 di procedere volontariamente all’interruzione della gravidanza entro i primi 90 giorni dal concepimento comporta ”l’inevitabile risultato della distruzione di quell’embrione umano che è stato riconosciuto quale soggetto da tutelarsi in modo assoluto”. Proprio in conseguenza di questa sentenza l’articolo 4 della legge 194 si porrebbe in contrasto con i principi generali della Costituzione ed in particolare con quelli della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2) e del diritto fondamentale alla salute dell’individuo (articolo 32 primo comma della Costituzione). Altre obiezioni sono state formulate dal giudice con riferimento agli articoli 11 (cooperazione internazionale) e 117 (diritto all’assistenza sanitaria e ospedaliera) della Costituzione.
Certo è che per una donna che intende abortire il percorso è a ostacoli. “Nel Lazio in 10 strutture pubbliche su 31, esclusi gli ospedali religiosi e le cliniche accreditate, non si eseguono interruzioni di gravidanza. Tra queste, 2 sono strutture universitarie (Tor Vergata e S. Andrea), che dunque disattendono anche il compito della formazione dei nuovi ginecologi, sancito dall’articolo 15 della legge 194″. denuncia la Libera associazione italiana dei ginecologi per l’applicazione della legge 194 (Laiga), che oggi a Roma ha presentato i risultati di un monitoraggio dello stato di attuazione della legge nel Lazio. “I numeri – avvertono i ginecologi – sono emblematici della drammaticità della situazione in cui versa la gran parte delle regioni italiane. E’ emerso che la realtà è ben più grave di quanto riportato nella relazione annuale presentata in Parlamento dal ministro della Salute. C’è un clima di attacco su più fronti alla legge 194 e in generale al diritto alla piena salute riproduttiva, che mette in campo l’uso strumentale dell’obiezione di coscienza”. La difficoltà di poter interrompere una gravidanza costringe le donne a vere e proprie migrazioni dalla province alla capitale o addirittura all’estero. Secondo i dati riportati dalla Laiga “nel Lazio ha posto obiezione di coscienza il 91,3% dei ginecologi ospedalieri. Se per gli aborti del I trimestre si può fare in parte fronte alla situazione ricorrendo a medici convenzionati esterni o a medici gettonati, così non è per gli aborti terapeutici, sui quali quel 91,3% pesa come piombo. Con il ricorso a medici convenzionati esterni e medici a gettone l’obiezione scende all’84%, dato comunque più grave dell’80,2% riferito dal ministro della Salute, che non considera nella sua relazione il fatto che una parte dei non obiettori in realtà non esegue l’interruzione volontaria della gravidanza“.
“E’ a dir poco assurdo nonché imbarazzante che ancora oggi, in un Paese che si definisce laico ed europeista, si metta in discussione il diritto individuale di una donna di scegliere entro i primi 90 giorni se portare avanti o no la gravidanza- dice la vicepresidente di Equality Italia, Simona Clivia Zucchett – .In uno Stato di diritto contemporaneo una discussione simile è inammissibile e offensiva per il genere femminile, già notevolmente e quotidianamente discriminato in questo Paese. Stiamo raggiungendo in Italia i minimi storici di civiltà e forse sarebbe il caso di domandarsi perché sette medici su dieci sono obiettori di coscienza e dove cinque di questi sono uomini”. In Lombardia cresce il numero del personale sanitario e non sanitario che pongono obiezioni di coscienza; il 67% dei medici ginecologi, il 47,1% dei medici anestesisti e il 40,3% del personale paramedico. E’ per questo sette consiglieri regionali lombardi del Pd hanno firmato un’interrogazione a risposta scritta indirizzata all’assessore regionale alla Sanità Luciano Bresciani. Oltre agli “alti tassi di obiezione di coscienza” c’è “la dilatazione dell’attesa tra la certificazione e l’intervento: per il 44% delle richiedenti i tempi superano i tempi superano i 15 giorni e per il 28% superano i 22 giorni”, scrivono i consiglieri, che segnalano anche “il ricorso all’emigrazione ad altra provincia o regione, fenomeno che emerge dai raffronti tra i dati delle Asl dove viene effettuata l’Ivg e quelli delle Asl di residenza delle pazienti”. In uno degli ospedali più importanti del nord Italia il Niguarda di Milano si contano soltanto quattro non obiettori su ventiquattro, per esempio.
Del resto “il 2011è stato un anno record per l’attività dei 329 Centri di aiuto alla vita sparsi in tutta Italia: 17mila infatti sono i bambini nati grazie all’azione dei Cav, con una media di 52 bambini per centro che in vent’anni si è quasi quintuplicata”. Il Movimento per la Vita esulta: “Sommando i valori annuali si conclude che, a partire dal 1975 (anno di fondazione a Firenze del primo Centro di aiuto alla vita) ad oggi, i bambini nati grazie all’aiuto dei Cav sono complessivamente oltre 140mila. Nel 2011 le donne assistite sono state oltre 60mila (183 in media per ogni Centro, un valore medio che dal 1990 ad oggi si è piu’ che quadruplicato). In totale, le prestazioni assistenziali fornite sono state decine di migliaia: soprattutto di assistenza sociale, psicologica e morale, aiuti in denaro, assistenza medica”.