Egitto, proteste anti-Mubarak Il secondo turno delle elezioni presidenziali in Egitto, previsto per il 16 e il 17 giugno, si avvicina e l’ansia per il loro esito aumenta di ora in ora. Vincerà Ahmed Shafiq, l’uomo dei generali e l’ultimo primo ministro dell’era Mubarak (anche se per poche settimane), oppure Mohamed Morsi, esponente del partito Libertà e Giustizia, fondato dai Fratelli Musulmani, usciti vittoriosi nelle ultime elezioni legislative? Torneranno a vincere i militari oppure l’Egitto diventerà una repubblica islamica? Quali saranno i contenuti della nuova costituzione? Che fine farà la “rivoluzione egiziana”? Finiscono qui le speranze e le lotte di milioni di persone che per mesi hanno gridato a squarciagola in piazza: “Libertà, dignità, giustizia sociale”?

Nei discorsi di molti analisti occidentali sembra prevalere il pessimismo. La scelta tra i due candidati nel prossimo ballottaggio non lascia davvero molto spazio all’entusiasmo, ma l’atteggiamento di sfiducia non è dovuto soltanto all’assenza di un candidato “credibile” e rappresentativo delle istanze rivoluzionarie. Il giudizio pessimistico è dovuto anche a quella frequente attitudine di molti analisti occidentali a sminuire e deridere ogni gesto, ogni parola e ogni risultato (politico, sociale ed economico) strappato con lotte e sacrifici dalle popolazioni arabe. I loro comportamenti, le loro gesta e parole sono sempre descritti come “infantili”, persino le rivoluzioni e le “intifade” non vengono chiamate col proprio nome, ma si inventano espressioni come “la primavera araba”, “il risveglio arabo”, oppure si aggiunge un aggettivo esotizzante, tipo “la rivoluzione dei gelsomini” (mai “rivoluzione” e basta!), ecc. 

Un esempio lampante dell’atteggiamento inferiorizante (e, dunque, razzista) di alcuni studiosi occidentali nei confronti delle lotte della popolazioni arabe per la libertà e la giustizia sociale lo possiamo trovare nell’intervista rilasciata il 25 febbraio 2011, da Bernard Lewis, noto ed influente storico ed orientalista britannico, il quale così si esprimeva a proposito delle rivolte arabe: “Le masse arabe vogliono sicuramente un cambiamento. Loro vogliono un miglioramento. Ma quando ci chiediamo se vogliono la democrazia…questo è un concetto politico che non ha storia, o traccia nel mondo arabo e islamico. …Noi, in particolare noi che viviamo nel mondo occidentale, tendiamo a pensare la democrazia a modo nostro…vale a dire periodiche elezioni secondo il nostro stile. Ma io penso sia un grande errore cercare di pensare il Medio Oriente in questi termini e ciò porterebbe soltanto ad esiti disastrosi, come si è visto in molti posti. Loro [le masse arabe, ndr] semplicemente non sono pronte per la libertà e per le elezioni libere”.

Per cogliere il razzismo nelle parole di Lewis non occorre scomodare Edward Said ed il suo “Orientalismo”, perchè è scandalosamente evidente. Egli però è in buona compagnia in Occidente e sa di esserlo. Quello che non sa o che, probabilmente, non vuole sapere è che la storia lo sta smentendo in diretta, proprio mentre scrive o rilascia le sue interviste. Che piaccia o no, le rivolte arabe del 2011 hanno cambiato per sempre la storia e la geografia dei poteri globali. Che piaccia o no, le masse di lavoratori e studenti arabi hanno finalmente occupato la scena della storia e non hanno intenzione di mollarla. Che piaccia o no la rivoluzione egiziana continuerà, con Shafiq oppure con Morsi come presidente dell’Egitto. 

La prova che la rivoluzione egiziana è ancora viva l’abbiamo ogni giorno che passa: l’abbiamo avuta quando migliaia di egiziani si sono riuniti per protestare contro la vergognosa sentenza che ha condannato all’ergastolo Mubarak, ma che ha anche assolto suo figlio ed alcuni esponenti delle forze di polizia che massacrarono centinaia di rivoltosi nelle piazze gremite del 2011; la prova l’abbiamo avuta quando Hamdeen Sabahi, candidato di alcune forze laiche e di sinistra, completamente ignorato da tutti i media internazionali e con una campagna elettorale senza grandi mezzi finanziari, è risultato il più votato al Cairo, ad Alexandria, a Port Said ed a Kafr El-Sheik, e si è piazzato in seconda posizione a Dakahleya, Gharbyia, Damietta, Ismailia, Suez, vale a dire in tutte quelle zone dove maggiore è stata la partecipazione popolare alle rivolte del 2001;  la prova l’abbiamo avuta nell’impressionante numero di scioperi e di proteste degli ultimi mesi (solo nel 2011 ci sono stati 168 sit-in, 77 scioperi imponenti, 51 manifestazioni, 48 azioni di protesta), così come nelle parole degli uomini, donne e bambini, che continuano a scendere in piazza per gridare ancora: No agli avanzi del vecchio regime! No alla Fratellanza Musulmana! La costituzione è nelle piazze!”. 

Non è che non vi siano differenze tra i due candidati e tra le politiche che essi promettono di implementare, il fatto però è che nessuno dei due rappresenta le forze e gli ideali della rivoluzione: Ahmed Shafiq, oltre ad essere uno degli uomini di fiducia di Mubarak, è anche accusato di essere colui che provocò “la battaglia dei cammelli”, ovvero il massacro di decine di manifestanti riuniti a Piazza Tahrir contro Mubarak; Mohamed Mosri è uno dei vertici dei Fratelli Musulmani e, nonostante la base della Fratellanza abbia spesso partecipato alle proteste in piazza, assieme ad altre forze rivoluzionarie, egli è pur sempre uno dei vertici, ovvero uno di coloro che hanno guardato con diffidenza o perfino boicottato le proteste in piazza, e che ora sono spesso visti come “collaboratori” dei militari (SCAF).  

Qualsiasi sia, però, l’esito del ballottaggio del 16 e 17 giugno, chiunque dei due candidati in gara diventi presidente dell’Egitto, la lotta del popolo egiziano per la libertà, la dignità e la giustizia sociale continuerà. E non sarà di sicuro una lotta per ottenere “periodiche elezioni secondo il nostro stile”, perchè gli egiziani vogliono di più, puntano ad avere una vera democrazia sociale. E, su questo punto, ha ragione da vendere Hamid Dabashi, studioso e professore alla Columbia University, quando, in un recente articolo pubblicato sul sito di Al Jazeera, scrive: “Oggi, gli egiziani sono la luce del mondo: invece di scoraggiarli, rinfacciare loro i fallimenti, il mondo deve alzarsi in piedi e con riverenza inchinarsi dinanzi a loro, salutarli e gioiosamente ed umilmente cantare con loroTahya Masr wa Tahya al-Huriyya, Thwarah Thwarah hatta al-Nasr, fi umma al-Dunya Diya/ Lunga vita all’Egitto, e lunga vita alla Libertà, alla Rivoluzione, fino alla vittoria, in Egitto, Madre del Mondo”. 

(Foto: LaPresse)

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