Un investigatore: "Per aiutarci a catturare i responsabili, ogni boss chiedeva qualcosa". Cosa volevano quella volta? “Soldi e sconti di pena”. Ci fu scambio? “Sì”. Il governo sapeva? “I nostri referenti certamente”
La prima domanda è secca: per individuare i killer della strage di Duisburg lo Stato trattò con la ‘ndrangheta? La risposta arriva rapida e inquietante: “Sì, lo Stato trattò”. La seconda viene naturale: cosa volevano i boss? “Soldi e sconti di pena”. Ci fu scambio? “Sì”. Il governo sapeva? “I nostri referenti certamente”. All’epoca Romano Prodi è il presidente del Consiglio, Giuliano Amato sta al Viminale, mentre Arturo Parisi è ministro della Difesa. L’altra domanda allarga il campo: e ancora prima e oggi e domani? “Lo Stato ha sempre trattato con la ‘ndrangheta e nessuno lo ha mai fatto senza che la magistratura non ne fosse a conoscenza”. Anche per Duisburg? “Anche”. Perché? “Per non trattare le istituzioni devono essere determinate”. Se ne deduce che in rari casi lo furono? “Io ho sempre detto: signori miei, non è che ci sediamo al tavolo ma poi ci alziamo, ci rimettiamo i panni delle istituzioni e ci dimentichiamo. Se scendiamo a patti ci dobbiamo togliere la divisa o la toga e andare fino in fondo”. Qualche secondo di pausa, quindi un assunto dal quale non si può prescindere: “Sia chiaro: noi non abbiamo mai trattato l’impunità del reato”.
L’investigatore si tiene dentro a un abito scuro. Parla senza inflessione dialettale. Con il tempo si è abituato. Con il tempo e gli arresti: a decine. Tutti mafiosi: boss e killer, sequestratori e riciclatori. Quelli come lui nelle intercettazioni li chiamano “sbirrazzi”. Quelli come lui, i capibastone li vorrebbero sotto terra. Lo Stato , invece, no. Lo Stato li prende e li getta nella mischia. Perché sono bravi, tosti, lottatori. Dei soldati. Che obbediscono agli ordini. Esempi? “Negli anni Novanta i servizi segreti militari mi chiesero di posticipare di 24 mesi l’arresto di un boss del clan Morabito capace di trafficare 300 chili di droga al mese”. All’epoca il broker mafioso commercia eroina con i siriani. “Spesso andava in Medio Oriente”. Qui frequenta i salotti politici. “Da lì acquisiva informazioni che girava al Sismi”. Dopodiché gli 007 italiani danno tutto all’intelligence Usa a sua volta in rapporti con quella israeliana. Conclusione: un trafficante della ‘ndrangheta fu arrestato con un ritardo di due anni per ordine dello Stato. Lo stesso Stato che, stando all’esperienza dell’investigatore, chiede di trattare con le cosche per dare un volto e un nome agli autori della strage di Duisburg: sei morti, 70 colpi sparati. Tutto avviene il 15 agosto 2007. In pochi minuti. Prima i brindisi. Poi le armi. Muoiono Francesco e Marco Pergola, Sebastiano Strangio, Francesco Giorgi, Marco Marmo, Tommaso Venturi. Tutte vittime della faida di San Luca. Da un lato le cosche Pelle-Vottari , dall’altro i Nirta-Strangio. Scaramucce di paese finite nel sangue. A far data dal 1991 il tabellino segna 15 cadaveri. Gli ultimi 7 in meno di un anno. La notte di Natale del 2006 muore Maria Strangio, moglie del boss Giovanni Nirta. I magistrati hanno pochi dubbi: l’omicidio viene ordinato da Francesco Pelle, detto “Ciccio pakistan”, finito sulla sedie a rotelle dopo essere stato colpito sull’uscio di casa. È il 31 luglio 2006. Da qui inizia la lunga vendetta dei Pelle-Vottari. Natale lava il sangue. Ma altro ancora ne dovrà scorrere. È quello versato in Germania e che fa il giro del mondo. Warum? (perché) si domandano i tedeschi. Cos’è questa mafia dal nome strambo? Un take d’agenzia di quei giorni ne dà una spiegazione etimologica: la parola deriva dal greco agathia andro’s (uomo di valore). Si sfiora il ridicolo. Ma è il termometro di una crisi: la faida rischia di trasformarsi in guerra di mafia. Così non sarà. E il 12 luglio 2011 il Tribunale di Reggio Calabria condanna otto persone all’ergastolo. Tra loro anche Giovanni Strangio, l’ideatore dell’agguato. In quell’estate 2007, però, le istituzioni annusano il pericolo. “Io vengo informato e sento subito una fonte confidenziale”. Si tratta di un boss importante, anche lui originario di San Luca, ma da anni emigrato in Sudamerica. Siamo alle ore appena successive alla strage. “Scendo in Calabria e cerco un contatto per arrivare a lui”. Da qui il viaggio oltreoceano.
Inizia un lavoro serrato. “A Giovanni Strangio ci arriviamo subito”. La fonte risulta determinata. Promette (e così sarà) di poter identificare mandanti ed esecutori. “Ma visto che nemmeno il cane muove lo coda senza interessi” anche il boss emigrante vuole qualcosa in cambio. Cosa? Denaro (quasi un milione di euro) e “uno sconto di pena per un importante capobastone in carcere”. Non uno qualsiasi, ma un padrino della Locride in carcere per sequestro di persona. “Tutte le richieste io le ho portate all’autorità giudiziaria”. A ottobre, poi, la procura risponde confermando l’interessamento presso il Dipartimento degli affari penali per assecondare le richieste a favore del boss in carcere. Ora c’è silenzio. Dura poco ma pare un’eternità. L’investigatore prosegue: “Per Duisburg abbiamo contattato anche gente in carcere. Anche boss di rilievo. Ognuno chiedeva qualcosa: il trasferimento di un parente o il passaggio a un regime detentivo meno duro. Tutte richieste aggiustate”. Ultima domanda: in questo modo però avete favorito la ‘ndrangheta? Risposta finale e definitiva: “Lo Stato non favorisce la ‘ndrangheta, ma a volte bisogna evitare altri morti”.
da Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2012