Lontani i tempi in cui riempiva i posti in piedi, Francesco De Gregori torna a suonare in piazza Maggiore, a Bologna. Concerto gratis, lui ben remunerato. Piazza Maggiore era la casa di Lucio Dalla, che abitava lì, in via D’Azeglio, ma De Gregori ai funerali di Dalla non si è fatto vedere. Diranno che è schivo. Io penso che sia un’altra cosa. Lo doveva a Dalla e lo doveva, soprattutto, a tutte quelle persone che erano in piazza a piangere per un grande omino che non avevano mai conosciuto. Mi va giù male saperlo in piazza Maggiore dopo non averlo visto insieme a decine di migliaia di persone. Colpì non vederlo, era una delle persone che, dal punto di vista artistico, aveva un debito enorme con Lucio. Ma da tempo immemorabile De Gregori gioca a fare il divo. E, come ogni divo che si rispetti, non avrebbe gradito la mancanza di attenzione.
Avevo 17 anni e spiccioli, non ricordo bene. Ricordo le parole: “E’ giusto prendersi una pausa, siamo giovani”. “Ma dicevi di amarmi”. “Sì, ma tu sei convinto di vivere in una canzone di De Gregori, io quello non so neppure che faccia abbia. Siete noiosi, tu e lui”. Me la porto ancora addosso quella cicatrice, altrimenti non la ricorderei. Ma sono andato avanti per la mia strada, col tempo ho capito che quella ragazza non aveva tutti i torti. Io sono di una noia mortale e la vita non era e non è una canzone di De Gregori. Ma non ho smesso di ascoltare De Gregori. Mia figlia, che oggi ha 13 anni sa le canzoni sue a memoria per colpa mia e il controllo totale che ho sull’autoradio. Il piccolo avevo già iniziato a istruirlo. Poi, a 42 anni suonati, cambi idea e arrivi alla convinzione che De Gregori ti ha preso per il sedere. O, meglio, che De Gregori è andato, togli la trilogia del Titanic, La Donna Cannone e Atlantide, e sarebbe un cantautore che non ha più avuto voglia – o stimoli – per raccontare niente di che. De André, fino all’ultimo, ha sperimentato, così come ha fatto Fossati. Ed entrambi si sono addentrati in una musica che da Genova ha portato al Sudamerica. De Gregori è rimasto convinto che il mondo è iniziato e finito al Folk studio, oltre Tivoli non arriva. Francesco Guccini ha continuato a stupire, si è inventato capolavori che non fossero soltanto la Locomotiva, la più bella ballata mai scritta: forse non ha sperimentato, ma dopo Radici ci sono stati album memorabili come Via Paolo Fabbri 43, Amerigo, Signora Bovary, Quello che non. Si è cimentato col tango e con Scirocco ha fatto quello che solo Guccini poteva fare, raccontare una Bologna che non esiste, con un vento che non soffia e velieri che non ci sono.
De Gregori ha preferito campare di rendita. Giusto per non rischiare. Anche Enzo Jannacci, a settant’anni, ha reinventato, si è addolcito sul jazz, accompagnato per mano dal figlio Paolo.
Sono stato amico di Dalla gli ultimi anni, e so che voleva bene a De Gregori. Molto. Non solo, quando al Palalido di Milano un gruppo della sinistra extraparlamentare lo processò per aver tradito la causa e gli impedì di proseguire il concerto, non fosse stato per Dalla la carriera di De Gregori forse sarebbe proseguita altrove, sicuramente non nella musica live.
Ogni tanto Lucio, in privato, diceva: “Nel 1979, con Banana Republic, lo presi per i capelli, era perso, lo trascinai sul palco. L’ultimo tour insieme, Work in progress, forse mi ha salvato lui, perché io di voce ne avevo poca”. Provate a farla dire a De Gregori una cosa del genere. Vi dirà, al contrario, che lui era Banana Republic. Ultimamente gli ho sentito disconoscere anche Bob Dylan, per il quale ha vissuto un’adorazione. Prima aveva il coraggio di dire sì, sono un mediocre suonatore di chitarra, mi sarebbe piaciuto molto essere bravo. Adesso ha cambiato rotta: “Ho maturato un modo mio di suonare la chitarra, in questo sono unico”. Che vuol dire? Niente, come molte sue canzoni. Che suona male la chitarra, punto e basta.
Posso continuare – e lo faccio, visto che vanto qualche fidanzata persa e molti soldi spesi in musicassette, lp, cd – con il fatto che negli ultimi anni De Gregori mi ha rivenduto sempre il solito disco, ogni tanto ci ha aggiunto un inedito. Per non parlare dei concerti dal vivo. Ha passato almeno due periodi in cui era inascoltabile: quando adattava il romanesco alle sue canzoni e quando invece le stravolgeva musicalmente come fa Bob Dylan da mezzo secolo, senza però essere Bob Dylan.
Va bene, dirà il lettore accidentale, e allora? Affari tuoi. Certo, è vero. Verissimo. E’ una mia personalissima avvelenata, nulla di più. Mi terrò gli insulti: arriveranno, eccome se arriveranno. E raccoglierò le attenzioni di pochi, pochissimi lettori. D’altronde è una lettera, nulla di più. Ma non posseggo l’indirizzo di De Gregori. E qui, comunque, in questo spazio, gliela volevo scrivere. Ciao ciao.