Paolo Conte suonava, Vittorio Sgarbi discettava di Gioconda con ambasciatori e consoli africani e indonesiani, l’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi, orgogliosamente accompagnato da Roberto Formigoni ripeteva “siamo una squadra”, mentre Letizia Brichetto Arnaboldi, sottobraccio al marito Gian Marco Moratti, stringeva mani e cercava di convincere gli ultimi indecisi, garantendo che Milano avrebbe mantenuto tutti gli accordi presi. Era la notte del 25 marzo 2008, la sera prima del voto al Bie per l’assegnazione di Expo 2015. Nella Piramide davanti al Louvre il comitato presieduto dall’allora sindaco Moratti aveva riunito 400 invitati tra cui i vertici di Eni e Finmeccanica, ben introdotti nei paesi con diritto di voto (dall’Iran alla Nigeria), oltre ai rappresentanti degli Stati che avrebbero deciso se assegnare l’esposizione internazionale a Smirne o a Milano. I regali distribuiti come gadget della serata a presidenti e ministri vari (Rolex e Mont Blanc) erano solo l’ultimo atto di un’attività di lobbying avviata sei mesi prima.
Un tour promozionale costato circa 7,5 milioni di euro, spesi ovunque. Ma in particolare nei Paesi considerati in via di sviluppo, perché al Bie il voto della Francia vale quanto quello del Gabon. Milano vinse su Smirne 86 a 65. Da qui comincia il fallimento di Expo che ha portato il sindaco Giuliano Pisapia a decidere di dimettersi da Commissario straordinario, spronando il governo dei tecnici. Il primo cittadino, del resto, si è ritrovato il giugno scorso con i commissari del Bie a verificare cosa avesse fatto la società Expo dal 2008 al 2011. E risultò che nulla aveva fatto. Tranne litigare. Il primo anno la Moratti l’ha perso nel tentativo (fallito) di far nominare amministratore unico il fidatissimo (ma privo dei requisiti anche secondo gli altri membri del cda) Paolo Glisenti. Insediato Lucio Stanca (contemporaneamente anche parlamentare) e Diana Bracco (all’epoca presidente di Assolombarda) un altro anno è andato via per una questione apparentemente semplice: scegliere cosa fare delle strutture costruite per l’Expo con soldi pubblici una volta terminata l’esposizione. Con il particolare che i terreni sono diventati edificabili per 750.000 metri quadri di nuove abitazioni. Una nuova città. Alla fine si decide di comprare dai proprietari: la Fondazione Fiera, che incassa circa 80 milioni, e il gruppo Cabassi ne riceve 40. Quando Pisapia si insedia a Palazzo Marino, dunque , Expo è un progetto che esiste solo sulla carta dei progetti e quella degli impegni assunti con i vari Stati.
Come l’Alleanza per l’Africa, una fondazione con una dote (sulla carta) di 10 milioni di euro di progetti di cooperazione. Al primo ministro di Antigua, Baldwin Spencer, già grande amico di Silvio Berlusconi, Moratti nel marzo 2008 promise fondi per l’illuminazione delle strade; finanziare un progetto di ricerca per la barriera corallina; costruire una scuola di calcio con un impianto sportivo; realizzare corridoi di transito per la navigazione commerciale e un centro di canottaggio. Ma non solo. Anche collegamenti aerei diretti, strade, intensificare gli scambi commerciali e creare delle borse di studio riservate agli universitari. Tutto messo nero su bianco. Come l’accordo stretto con la Mongolia di collaborazione nelle energie rinnovabili. Mentre alla Guinea Bissau Moratti si era impegnata a fornire una collaborazione per la raccolta dei rifiuti. In Iran l’Università di Pavia dovrebbe andare a tenere dei corsi di prevenzione sismica, stando agli accordi presi da Moratti. Mentre alle Isola Marshall la società ha garantito una “introduzione alle tecniche di solar cooling”. In Gabon l’accordo prevede la formazione delle guardie forestali. Promessi inoltre scuolabus per i bambini delle isole dei Caraibi; una tranvia in Costa d’Avorio e una centrale del latte in Nigeria. Ma l’elenco è infinito. La stima della spesa per mantenere solo gli accordi raggiunti per vincere Expo è di circa 60 milioni di euro. Quello che è costato meno è stato il patto con Cuba: gli sono stati inviati degli autubus dismessi da Atm. Se ne saranno accorti, perché l’isola di Castro poi ha votato Smirne e non Milano.
Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2012