Presto, appena gli avvocati dei 12 indagati li avranno fotocopiati, saranno pubblici gli atti dell’inchiesta appena chiusa dalla Procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Comprese le intercettazioni di alcuni protagonisti: quelli che, non essendo parlamentari, possono essere intercettati. A quanto si sa, nel maremagno delle bobine depositate, c’è una telefonata che Nicola Mancino, ministro dell’Interno nel 1992-’93 ai tempi della trattativa, poi presidente del Senato, poi vicepresidente del Csm, ora privato cittadino, fece il 6 dicembre 2011: appena uscì dalla Procura di Palermo dov’era stato sentito come testimone. Evidentemente Mancino si rendeva conto di non aver convinto i pm, che difatti di lì a poco lo indagarono per falsa testimonianza. Dunque chiamò allarmato Loris D’Ambrosio, magistrato, già membro del discusso Alto Commissariato Antimafia ai tempi di Sica, una vita al ministero della Giustizia come consulente di Martelli, vicecapogabinetto di Conso, capogabinetto di Flick, Diliberto e Fassino, poi al Quirinale come consulente di Ciampi e consigliere giuridico di Napolitano.
Cosa vuole il privato cittadino Mancino dall’uomo del Colle? Lagnarsi dei pm di Palermo, i quali pretendono addirittura che dica la verità su due vicende cruciali: il suo incontro con Borsellino il 1° luglio ’92, annotato dal giudice nell’agenda grigia, ma prima negato da Mancino, poi quasi escluso, infine quasi ammesso (“forse gli ho stretto la mano, ma non l’ho riconosciuto”); e sulla strana cacciata di Scotti, fautore della linea dura con i boss insieme a Martelli, dal Viminale per far posto a lui, Mancino, che non fece nulla contro i negoziati del Ros con la mafia (Martelli giura di averlo avvisato), né contro la revoca di 400 e più 41-bis firmata da Conso. Nella drammatica telefonata a D’Ambrosio, Mancino sembra chiedere aiuto per dirottare l’inchiesta palermitana verso procure da lui ritenute più morbide, Caltanissetta o Firenze. Poi lascia cadere una velata minaccia: si dipinge come “un uomo lasciato solo che va protetto”. Si sa come sono gli uomini che si sentono soli: rischiano di doversi cercare compagnia, tirando in ballo “altre persone” (e fa il nome di Scalfaro).
Abbiamo chiesto lumi a Mancino, invano. Invece
D’Ambrosio ha risposto a Marco Lillo, ammettendo ciò che peraltro non poteva negare, visto che la telefonata è incisa su nastro, e aggiungendo alcuni particolari sconcertanti. Ma ha taciuto su due questioni decisive: cosa chiese Mancino al Colle? E cosa rispose e/o fece Napolitano? È vero che scrisse al Pg di Cassazione, titolare dell’azione disciplinare? D’Ambrosio dice di non poter rispondere perché vincolato a un inedito segreto presidenziale e perché gli atti del capo dello Stato sono “coperti da immunità”. C’è dunque qualche notizia penalmente rilevante? Di certo si sa soltanto che, dopo la telefonata, Mancino
si sentì le spalle coperte e, dotato di quei superpoteri, chiamò il procuratore di Palermo
Francesco Messineo, lagnandosi anche con lui dell’operato dei suoi pm. Sarà un caso, ma Messineo ha rifiutato di firmare la chiusura indagini, lasciando soli i suoi pm. Per non lasciare solo Mancino?
Ora una risposta del Quirinale s’impone: non per esigenze giudiziarie, ma per la necessaria trasparenza di ogni atto del capo dello Stato. Nessun privato cittadino, a parte Mancino, può chiamare l’Sos Colle per lamentarsi di un’indagine e poi, forte dell’alto viatico, andare a piangere sulla spalla del capo della Procura che indaga. In ogni caso il triangolo telefonico Mancino-D’Ambrosio (Napolitano)-Messineo fa finalmente giustizia della pubblicistica oleografica che dipinge lo Stato da una parte e la mafia dall’altra. In questo momento, un pugno di pm solitari cercano la verità sul più turpe affare di Stato della seconda Repubblica: le trattative fra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Tutti gli italiani onesti sono dalla loro parte. Da che parte sta il Quirinale che dovrebbe rappresentarli?
Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2012