Borse in rialzo, anzi no. Dura poco, pochissimo l’atteso effetto Grecia nel day after elettorale. Dopo l’iniziale impennata, le piazze europee rallentano vistosamente incapaci di trovare entusiasmo di fronte a quei dubbi persistenti che riguardano l’intero continente e che il voto ellenico non può certo cancellare con un colpo di spugna. A metà giornata Parigi perde circa lo 0,20%, mentre Milano e Madrid evidenziano ribassi superiori all’1,7%. Nelle ore successive Piazza Affari perde ancora terreno (-2,7% intorno alle 15) per poi chiudere col Ftse Mib a -2,85%. In risalita Francoforte e ovviamente Atene, dove l’indice generale guadagna oltre 4 punti trascinato in orbita dal boom delle banche che piazzano incrementi percentuali a doppia cifra. Sul fronte obbligazionario, i titoli italiani a 10 anni rendono attorno al 6% (spread Btp/Bund chiude a 464 punti), quelli spagnoli sfondano invece quota 7% (spread a 568) attestandosi in pieno nella zona pericolo.

In sintesi: la vittoria dei conservatori di Antonis Samaras ha aperto la strada alla probabile formazione di un governo “moderato” capace di intavolare una trattativa per una parziale revisione del patto di austerity. Numeri alla mano, Nea Demokratia e Pasok possono contare su 162 dei 300 seggi totali dell’assemblea legislativa, vale a dire che dovrebbero essere in grado di creare finalmente un esecutivo. A quel punto potrà iniziare la trattativa. La Germania, ovviamente, non è disposta a cedere sui contenuti ma potrebbe dimostrarsi più lassista sui tempi. La Grecia, in altre parole, confermerebbe il proprio impegno nel perseguire gli obiettivi di stabilità ma le scadenze potrebbero essere allungate. Un po’ come accaduto con la Spagna che, quasi unilateralmente, si è presa più tempo per abbassare il proprio deficit entro livelli accettabili. Una soluzione di questo genere consentirebbe tanto al governo ellenico quanto ad Angela Merkel di salvare la faccia davanti ai rispettivi elettori. Ma non produrrebbe alcuna svolta nel processo di risoluzione della crisi europea.

I programmi a brevissimo termine, ha ricordato oggi la Reuters, impongono ad Atene il licenziamento di 150 mila dipendenti pubblici, un taglio alla spesa da 11 miliardi di euro, la dismissione di parte delle imprese di Stato, un maggiore contrasto all’evasione fiscale e un’accelerazione della riforma del lavoro. Il tutto nel contesto di un’economia in contrazione del 5% e con un tasso di disoccupazione secondo solo a quello spagnolo. Scontata, a questo punto, l’esplosione di nuove tensioni sociali con tutto ciò che ne deriva in termini di stabilità del governo. Il solito Nouriel Roubini profetizza addirittura una caduta dell’esecutivo nello spazio di sei mesi o un anno con successivo trionfo elettorale di Syriza e inevitabile addio all’euro.

A preoccupare i mercati, inoltre, c’è la sempre più preoccupante crisi spagnola. Due dati su tutti: in primis il peso dei bad loans, ovvero dei prestiti a rischio insolvenza, che secondo gli ultimi rilevamenti sono saliti a quota 8,72% sul totale dei crediti delle banche. E’ il livello più alto dal 1994. In secondo luogo il rendimento dei titoli di Stato. Come si nota da tempo, quota 7% è ampiamente insostenibile e le esperienze di Grecia, Irlanda e Portogallo insegnano senza timore di smentita che il raggiungimento di quella soglia non è altro che il preludio all’intervento esterno. La paura di un collasso spagnolo continua insomma a pesare sul mercato e non potrà essere certo l’esito rassicurante delle elezioni greche a cambiare la sostanza del problema.

La questione di fondo è più o meno tutta qui. Il voto in Grecia ha fermato sul nascere a diffusione del panico. I piani di emergenza di contrasto alla fuga della liquidità dalle banche elleniche e spagnole sono stati rimessi per ora nel cassetto, ma la fiducia delle piazze finanziarie è ancora molto bassa. Dando per scontato che il G20 messicano non risolverà nulla si attendono ora settimane interlocutorie. Un’ipotesi, a questo punto, è che la Bce scenda nuovamente in campo per un’innaffiata di liquidità all’1%. “La Banca centrale europea continuerà a garantire liquidità alle banche solventi che ne avessero necessità”, ha dichiarato venerdì Mario Draghi aggiungendo, e non è una precisazione da poco, che “nei Paesi dell’Eurozona non ci sono al momenti rischi di inflazione”. Insomma, seppur con toni diplomatici in pieno stile Bce, Eurotower potrebbe aver legittimato preventivamente il ricorso a nuove politiche espansive. Pur con la speranza, s’intende, di non doverle usare.

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