Non credo che si faccia molta strada sul piano del progresso della civile convivenza solo sostituendo un’intolleranza con un’altra uguale e contraria a quella sofferta. Vorrei perciò tentare la mission impossible di trovare una soluzione al dialogo tra sordi su temi civili laceranti quali il riconoscimento del matrimonio o di altra forma giuridica di unione tra omosessuali che è solo uno degli argomenti che più dividono nella società i c.d. cattolici dai c.d laici.

Premetto doverosamente che parlare di laici e cattolici è solo un modo per semplificare due posizioni di pensiero e di visione antropologica radicalmente inconciliabili che però non appartengono esclusivamente ai credenti -e meno ancora ai praticanti- che pure sono “laici” nella misura in cui abbiano chiara la differenza che corre tra ciò che costituisce peccato e ciò che può configurare invece reato o comunque un illecito.

Conosco bene entrambe le posizioni e i punti di partenza e posso testimoniare che in entrambi i casi si cerca la piena affermazione della libertà individuale e del bene dell’individuo. Come è possibile allora la loro incompatibilità? Purtroppo è normale quando si parta da presupposti radicalmente diversi e inconciliabili e quando il giudizio di valore su un dato comportamento è opposto è evidente che, al di là del profilo soggettivo e della buona fede, una delle due posizioni sia errata: “non esistono verità assolute” è infatti un’affermazione assoluta anch’essa che smentisce sotto il profilo della logica l’incauto relativista che la pronunci.

Ma la logica non basta: non viviamo solo di logica o di razionalità. Forse è questo il limite della posizione “cattolica” che impone visioni oggettive “non negoziabili“. Visioni però già precristiane, mi sentirei di ricordare a coloro che in nome dei diritti civili tacciano di essere “eteroguidati dal Vaticano” coloro che affermano, ad esempio, il principio del valore assoluto della vita dal concepimento alla morte naturale. Basta leggere il giuramento di Ippocrate (IV sec. a.C.) per scoprire che tale valore è di molto anteriore alla predicazione di Cristo e della sua Chiesa: “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo”.

Seguendo un approccio puramente razionale dovrei dare ragione ai c.d. cattolici: fanno bene a tenere duro su certe posizioni perché il loro modo di ragionare è più coerente sotto il profilo logico. Eppure, come dicevo prima, entrambe le posizioni si ripropongono di cercare il bene dell’individuo e del resto nessuno cerca mai il male in sé: anche attraverso le azioni più abiette si cerca sempre, magari in modo disordinato, un qualcosa di buono, almeno per se stessi.

Forse, allora, il solo criterio logico non è sufficiente a trovare una soluzione al rapporto tra concezioni di libertà e convivenza civile: non siamo solo esseri razionali, non siamo pure intelligenze, non siamo angeli: la nostra natura è più imperfetta, più complessa, abbiamo bisogno di imparare anche dagli errori, più faticoso è il cammino verso un minimo di pace e di benessere, almeno interiore. E tutto ciò gioca con il mistero della vita e di ogni singola esistenza dalla sua alba al tramonto.

Di fronte al mistero del male presente in maniera costante nella esperienza umana, il credente si interroga sul perché sia consentito da un dio creatore, onnipotente e onnisciente, fino a fargli dubitare della sua stessa esistenza. Ma se un dio esiste eppure tollera l’arbitrio umano sino alle peggiori efferatezze, può mai un essere umano avere meno tolleranza di un dio infinitamente buono e provvidente?

Se costringessi la gente a pregare oppure a leggere poesie, avrei forse persone più spirituali o sensibili di cuore? No, molto probabilmente otterrei solo persone che per tutta la vita detesteranno sia le chiese che i libri. E’ evidente che con queste riflessioni mi riferisco solamente a quelle questioni laceranti su cui maggiormente si ha lo scontro tra le diverse concezioni di libertà, vissute dagli uni piuttosto che dagli altri come conquiste ovvero verso sconfitte civili: aborto, divorzio, unioni omosessuali, eutanasia, manipolazione degli embrioni.

“Vissero per sempre felici e contenti” è ad esempio la costante conclusione delle favole che più amiamo e sogniamo: la realtà coniugale conosce invece separazioni e divorzi anche se talvolta le favole si realizzano davvero, magari attraverso momenti di crisi affrontate in tempo e bene.

La soluzione di questo conflitto non prevede allora vincitori né vinti con assoluta tolleranza reciproca. Chi riterrà che l’aborto, il divorzio, ecc. siano un male avrà il diritto non solo di vivere coerentemente, ma di manifestare liberamente questo pensiero, proponendolo, non imponendolo però. E, viceversa, chi penserà l’esatto contrario non potrà però mai additare il primo di oscurantismo, bigotteria, omofobia, ecc. né considerarsi più civile o migliore.

La libertà personale e civile avrà tutto da guadagnare da questa “sportiva” competizione tra concezioni di libertà così diverse e inconciliabili e si affermerà così il più convincente, non il più forte. Nel pieno rispetto del faticoso e misterioso cammino di ciascuno di noi verso quella felicità limitata che è consentita ad un mortale e che spesso comporta anche l’esperienza degli errori, ancorché in buona fede.

Siamo soliti innalzare statue e monumenti alla libertà, ma dimentichiamo di fare altrettanto al suo logico corollario: la responsabilità personale. Una libertà responsabile e tollerante è forse allora la vera soluzione.

“Non condivido il tuo pensiero, ma darei la vita perché tu possa difenderlo” rimane quindi davvero l’unica regola e prospettiva di convivenza sociale per conciliare visioni così diverse della libertà in una democrazia.

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