In Libia, la vita per i migranti irregolari non è mai stata facile. Durante il regime di Muhammar Gheddafi, era fatta di arresti, detenzioni a tempo indeterminato, torture e sfruttamento.
A molte di queste violazioni dei diritti umani, l’Italia ha contribuito, con accordi tecnici che hanno coinvolto svariati governi, suggellati dall’Accordo di amicizia, partenariato e cooperazione siglato nell’agosto 2008 da Gheddafi e Berlusconi, che diede il via alla vergognosa e illegale stagione dei cosiddetti “respingimenti” (per inciso, due mesi fa il presidente del Consiglio nazionale di transizione ha confermato che per la Libia l’accordo del 2008 è ancora in vigore).
La “rivoluzione del 17 febbraio” 2011 non ha cambiato il destino dei migranti dell’Africa subsahariana. Per alcuni versi, a causa del vuoto di sicurezza, dell’assenza dello stato di diritto, della proliferazione delle milizie armate, dell’impunità di queste ultime e della facilità con cui si trovano le armi, i rischi sono persino maggiori.
Una missione di Amnesty International in Libia ha raccolto numerose testimonianze.
David (per ragioni di sicurezza il suo vero nome e il luogo dove si sono svolti i fatti sono celati), un cittadino nigeriano di 42 anni, è stato arrestato lo scorso agosto senza mandato di cattura da un gruppo di miliziani in uniforme. Lo hanno preso a bastonate, lo hanno picchiato col calcio dei fucili e gli hanno sparato a una gamba per poi portarlo in un centro di detenzione. Una notte di dicembre, è stato trascinato fuori dalla cella, ammanettato a una cancellata e picchiato con un tubo di gomma. “Ho vissuto e lavorato in tanti paesi ma la Libia è il peggiore. Qui non sai chi è la polizia, chi sono queste bande armate, non c’è nessuno ad aiutarti” – dice David.
In un altro centro di detenzione, un cittadino del Ciad aveva, a distanza di oltre due mesi, ancora visibili sulla schiena i segni del pestaggio cui era stato sottoposto con bastoni di legno e spranghe di metallo. Lo hanno punito, ha raccontato, perché aveva tentato di evadere. I suoi compagni di cella hanno raccontato che spesso le guardie li picchiano per degli “errori”, come chiedere dei medicinali, lamentarsi della mancanza d’igiene o sollecitare informazioni sul loro destino giudiziario. A maggio, un cittadino nigeriano è stato pestato a morte.
Nonostante le testimonianze sul clima di violenza nei confronti dei migranti subsahariani siano note nei paesi di origine, la disperazione e il bisogno di fuggire dalla povertà continuano a spingere molti di loro a entrare in Libia. Le rotte per varcare il confine meridionale sono due: quella che passa per Sabha, per chi viene dall’Africa occidentale, e quella di Kufra per chi viene dal Corno d’Africa e dal Sudan.
I resoconti del viaggio sono terribili: abbandonati dai trafficanti in pieno deserto, senza una bussola e a chilometri di distanza dal centro abitato più vicino, chi ce la fa prosegue il viaggio a piedi sotto il sole.
Un ragazzo del Camerun, 24 anni, due settimane dopo essere entrato in Libia, è stato arrestato da un gruppo di miliziani in borghese perché era privo di visto d’ingresso. In carcere è costretto a fare lavori pesanti, come scaricare le casse di munizioni.
Un compagno di prigionia del Mali si è paragonato a “uno schiavo dei giorni nostri”: obbligato a lavorare, ricoperto di insulti razzisti e picchiato per aver “disobbedito” ai capi.
In altri centri di detenzione, i migranti arrestati vengono “assoldati” da un datore di lavoro per finire a spaccarsi la schiena senza paga o con una paga inferiore a quella concordata. Il giro di soldi è notevole. Un alto funzionario di Bengasi ha ammesso che i centri di detenzione per i migranti irregolari sono diventati un affare.
Come intuibile, le istituzioni libiche qui non sono presenti. Uno dei tanti centri di detenzione gestiti dalle milizie è quello di Gharyan. Ci sono ammassati 1000 cittadini stranieri, compresi donne e bambini, provenienti da Niger, Nigeria, Ciad, Sudan e altri paesi ancora. In buona parte sono stati arrestati a un posto di blocco mentre cercavano di raggiungere la capitale Tripoli, 100 chilometri a nord.
La Libia non riconosce il diritto d’asilo e deve ancora firmare la Convenzione delle Nazioni Unite sullo status di rifugiato. Ciò significa che i richiedenti asilo politico sono trattati alla stregua di migranti irregolari.
I direttori dei centri di detenzione dicono di sapere che i cittadini dell’Eritrea e della Somalia non possono essere rimandati nel loro paese. Ma non c’è una procedura uniforme da applicare per tutelarli.
A Gharyan, per esempio, gli eritrei e i somali vengono rilasciati una volta che le loro ambasciate abbiano confermato la loro nazionalità e abbiano firmato un “attestato”: una contraddizione profonda, dato che si tratta di persone in fuga dalla persecuzione politica. Una volta fuori, è probabile che vengano nuovamente arrestati: in quel caso, spiega il direttore, è prevista la libertà dietro pagamento di una cauzione di 1000 dinari. E chi li paga? No money, no freedom.
Come durante il regime di Gheddafi, l’Europa si gira dall’altra parte quando non ritiene opportuno denunciare le violazioni dei diritti umani in Libia. Basta che Tripoli mantenga il suo ruolo di controllore dei flussi di migranti e rifugiati.