Beata adultolescenza
Una sera sono entrato in una multisala dove proiettavano
L’ultimo bacio, pellicola di una certa rilevanza sociale diretta dal regista adultolescente
Gabriele Muccino.
Non mi aspettavo nulla da quel film, ho
fleshbec confusi sulla trama, ma ricordo bene che quando uscii dal cinema, nell’assordante silenzio della mia generazione, la mia vita cominciò a cambiare.
Proprio come in
Rocky IV, quando
Silvester Stallone, con il viso gonfio dalle botte prese dal turgido
Ivan Drago, impugna un microfono e biascica un memorabile discorso sconclusionato davanti a un’infreddolita platea sovietica amante della
boxe.
Parole semplici.
Mirate.
Che scatenano l’inaspettato: un finto
Gorbaciov, da una buia balaustra si alza in piedi e applaude l’eroe americano.
Non è certo un caso che, qualche anno dopo, il muro di Berlino sia stato abbattuto.
Tipico esempio di come il cinema possa influenzare realtà immutabili.
L’ultimo bacio non arrivò certo a questi livelli, ma
fu il primo importante osservatorio pop sulla fiacca degli adultolescenti.
Gli adulti del futuro.
Noi.
Qualcuno aveva intuito che per la prima volta nella storia ci si trovava di fronte a una generazione bamboccia, una massa di individui votati a non crescere per più tempo possibile, magari per tutta la vita. Finti giovani che andavano spennati con armi colorate e sonore, bastava agire sulla loro precoce nostalgia e il gioco era fatto.
Cosa vuole questa massa di sfigati inconcludenti se non rivivere a sprazzi l’adolescenza perduta per sempre?
Ed ecco serviti sul piatto d’argento ristampe di fumetti, videogiochi, divudì dei robò giapponesi, musica anni Ottanta, Novanta e, addirittura, materiale multimediale di epoche mai vissute.
Il Sessantotto ad esempio.
Mirare.
Puntare.
Fuoco.
Colpito.
Ed ecco apparire per le strade di Bologna i manifesti di
Red Hot Chili Peppers, Cure, Sting, Cypress Hill, Cult, New Order, Noel Gallagher, Cranberries, Mark Knopfer, To Petty, Romano Prodigy, Gemelle Kessler, Rita Levi Montalcini band, De Gregori e di tanti altri avidi artisti milionari che monetizzano la nostalgia degli adultolescenti della mia generazione bamboccia.
È tutto chiaro.
I pezzi del
pasol coincidono: sono/siamo un
targhet.
Che male c’è?
Nessuno.
Anzi, cosa voglio/vogliamo di più?
“I Police andavano visti nel 1978, altro che ’ste cagate di reunion dove si va in compagnia di vecchi a vedere e ad arricchire dei vecchi milionari su un palco maestoso” direbbe il mio amico
Mario Zanardi, che è un gran stracciamaroni.
Lasciamolo dire. Lasciamolo nel suo brodo. Davanti a me invece vedo stagliarsi un roseo futuro passivo da spettatore di concerti di vecchie bolse glorie del
roc, del
darce del
panc che mi erano sfuggite da sbarbo e quando avrò 83 anni continuerò ad ascoltare per intero
Siamese Dream degli
Smashing Pumpkins su vinile, alla faccia dei miei figli che andranno a a vedere l’ologramma di
Jim Morrison teletrasportandosi a Tokyo dopo esser stati a vuotare il rusco. Altro che.