Clinicamente morto. E’ questa la diagnosi dei medici dell’ospedale di Maadi per l’ex rais egiziano Hosni Mubarak, le cui condizioni di salute oggi si sono irrimediabilmente aggravate a causa di due ictus. Trasportato d’urgenza dal carcere (il 2 giugno Mubarak era stato condannato all’ergastolo “per il suo coinvolgimento nell’uccisione di dimostranti antiregime all’inizio dell’anno scorso” scrive l’agenzia Mena, che per prima ha dato la notizia), per lui non c’è stato nulla da fare. Con lui se ne va un pezzo di storia egiziana e africana. Una storia popolata dall’odio del suo popolo e sfociata nel sangue di piazza Tahrir. Aveva 84 anni. Nonostante il parere dei medici, però, resta un alone di mistero sulla effettiva morte dell’ex rais. Un giallo peraltro avvalorato da uno degli avvocati di Mubarak, che ha riferito alle agenzie di stampa che “l’ex presidente è ancora in vita, ma è in coma”. Analoga dichiarazione ha fatto alla CNN un generale del Consiglio delle Forze Armate. La notizia della morte di Mubarak è seguita con attenzione in piazza Tahrir, dove tutt’ora sono raccolte decine di migliaia di dimostranti che protestano da oggi pomeriggio contro i militari e lo scioglimento del parlamento. Una parte dei presenti ha respinto la notizia come infondata, considerandola “una mossa per deviare l’attenzione dei rivoluzionari dalla vittoria di Morsi e dalle proteste contro le decisioni del Consiglio Supremo delle Forze Armate”.
Muhammad Hosni Sayyid Ibrahim Mubarak era nato nel 1928, nel governatorato di al-Manufiyya, nel nord dell’Egitto. Sopravvissuto ad almeno sei tentativi di omicidio, è morto malato e soprattutto odiato dal popolo che ha governato come presidente-padrone per trent’anni. Mubarak era arrivato alla guida dell’Egitto il 14 ottobre 1981, dopo l’assassinio di Anwar al Sadat, e accanto all’allora presidente egiziano si trovava quando pochi giorni prima il 6 ottobre, fu ucciso durante la parata militare per ricordare la “grande vittoria” del 1973 contro Israele.
La sua carriera, però, era iniziata molto prima, quando, terminate le scuole superiori, scelse la carriera militare. A 21 anni, nel 1949, si era laureato all’Accademia militare e aveva poi deciso di diventare pilota, passando anche un periodo di addestramento in Urss, nell’accademia di Frunze, in quello che oggi è il Kyrgysistan. Nel 1964, dati i suoi ottimi rapporti con i militari sovietici, divenne capo della delegazione militare egiziana in Urss. Una storia che non gli impedì poi, da presidente, di far diventare l’Egitto il secondo percettore al mondo di aiuti militari statunitensi, dopo Israele.
All’ombra del presidente Nasser prima e di Sadat poi, tra il 1967 e il 1972, dopo il disastro e l’umiliazione della Guerra dei Sei Giorni, Mubarak divenne comandante delle forze aeree egiziane e viceministro della guerra. Dopo essersi distinto come generale durante la Guerra del Kippur (1973), Mubarak fu nominato vicepresidente nel 1975 e nel 1978 divenne vicepresidente anche del Partito nazionale democratico (Ndp). All’assassinio di Sadat, Mubarak rispose con leggi d’emergenza che sono rimaste in vigore per tutta la durata del suo governo e hanno consentito alla polizia egiziana di stringere in una morsa progressivamente sempre più grottesca tutta la società. Pilastro della strategia statunitense nella regione, Mubarak è rimasto fedele al trattato di Camp David, con cui nel 1979 Sadat firmò la pace con Israele e dieci anni dopo quel trattato riuscì a far rientrare l’Egitto nella Lega Araba.
Una fedeltà fredda nei confronti della normalizzazione con Israele, senza alcun gesto simbolico come quello compiuto da Sadat con la sua visita a Gerusalemme: Mubarak è riuscito a difendere Camp David senza esporsi, a partecipare a fianco degli Stati Uniti nella guerra del Golfo del 1991 senza dare il suo territorio nazionale alle basi americane, a proteggere il fianco sud di Israele pur conservando il ruolo di patron dei palestinesi. Difficilmente però Mubarak sarà ricordato per i suoi exploit politici o per la capacità di passare indenne attraverso guerre, rimodulazioni di alleanze, crisi economiche. La stabilità poliziesca del suo regime non è riuscita a nascondere la povertà, che in Egitto colpisce il 40 per cento della popolazione, né la corruzione, accentuata dalle riforme economiche di stampo neoliberista avviate tra la fine degli anni novanta e l’inizio dei duemila.
Nel 1991 scelse di schierarsi con gli Usa durante la prima guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein e da allora è riuscito ad accreditarsi come uno dei pilastri dello status quo mediorientale. Un ruolo così utile da spingere tutti i governi occidentali a far finta di non vedere le elezioni farsa o le violazioni dei diritti umani – decine di migliaia di persone finite nelle grinfie dei servizi di sicurezza, rafforzati dall’ex presidente in modo costante – quando non a chiedere l’appoggio dell’intelligence egiziana dopo l’11 settembre. La sua capacità di mantenersi in equilibrio tra l’alleanza con gli Usa e il ruolo dell’Egitto nella Lega Araba lo ha portato a sostenere le iniziative arabe per la soluzione del conflitto israelo-palestinese senza per questo smettere di collaborare attivamente con Israele nel blocco di Gaza.
Le voci di una possibile successione hanno iniziato a diffondersi dalla metà degli anni Duemila, per poi diventare pensiero comune nel 2009, dopo che l’ex presidente aveva compiuto 80 anni. L’erede designato, suo figlio Gamal stava scalando rapidamente la gerarchia dell’Npd, alimentando – innanzi tutto tra gli egiziani – la sensazione che Mubarak volesse trasformare l’Egitto in una “repubblica ereditaria”. Secondo in lista, era il suo potente braccio destro e capo dell’intelligence Omar Suleiman, l’uomo delle mediazioni continue tra Israele e i palestinesi (sia Hamas che Fatah), molto gradito anche agli Usa, che non ha subito sino ad oggi nessun procedimento giudiziario per il suo ruolo centrale nel regime di Mubarak. Due anni più tardi, le proteste di piazza Tahrir hanno deciso diversamente e l’ultimo ritiro del presidente è stato una località a Sharm el Sheik, prima delle apparizioni pubbliche in tribunale, in barella, sconfitto dal suo popolo e dall’età. Con la morte di Mubarak, però, non si chiude il capitolo del suo regime. Il rischio anzi, è che l’uscita di scena del tiranno sia l’occasione giusta per tirare una riga su 30 anni di governo dispotico e attribuire a lui e solo a lui tutta la colpa delle occasioni perdute da due generazioni di egiziani.
di Joseph Zarlingo