Questa mattina, il post su Facebook di un’amica mi ha tolto letteralmente il fiato.
“Mi rivolgo a tutte le persone che ci sono vicine per la sentenza definitiva. Ho un problema di salute che mi impedisce di essere a Roma il 21 giugno. Tutta la famiglia di Federico sarà a Roma. Tutta la famiglia reale e quella acquisita in questi anni. Amnesty inclusa. Vi chiedo aiuto. Vi chiedo di tenere per mano Federico”. La mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti
Federico è morto a 18 anni, il 25 settembre 2005, per uno shock cardiaco provocato dallo schiacciamento del torace. Il suo torace non ha retto alla pressione di ginocchia durante un “controllo di Polizia” in un parchetto di Ferrara da parte di quattro agenti: Enzo Pontani, Paolo Pollastri, Paolo Forlani e Monica Segatto. I primi due gradi di giudizio hanno condannato i quattro agenti a tre anni e sei mesi per eccesso in omicidio colposo. Domani, a Roma, la IV sezione della Corte di Cassazione deciderà se il metodo di giudizio sia stato corretto e confermerà o meno la sentenza.
Mi manca il fiato perché il ricordo di quella maledetta domenica di cronaca si accompagna all’impossibilità di immaginare un dramma più grande di quello di perdere un figlio. In un modo così assurdo, violento, inconcepibile. Mi manca il fiato perché, come per la Diaz, scoprire la violenza in chi dovrebbe proteggerci è come vivere senza la certezza del diritto, vivere in uno stato ansiogeno e destabilizzante. Mi manca il fiato perché la mamma di Federico deve avere aspettato questo momento per tanto, tanto tempo. Tanto da soffrirne anche fisicamente, e domani non potrà essere nella stessa aula in cui si metterà la parola fine non al suo dolore ma, almeno, al caso giudiziario.
Per questo voglio usare il mio piccolo blog su un grande giornale per rilanciare il suo appello: se siete a Roma e potete farlo, andate domani alle 10 al Palazzo della Cassazione (sul Tevere, accanto a Castel Sant’Angelo) e tenete idealmente la mano a Federico. Poteva essere nostro figlio.