Secondo i più avvertiti esponenti del pensiero economico, tra le cause di fondo dell’attuale devastante crisi che stiamo vivendo c’è proprio la compressione dei livelli di vita della maggioranza della società a livello mondiale, la cosiddetta deflazione salariale. Ciò comporta tra l’altro che le sciagurate ricette applicate dal potere finanziario e dalle sue istituzioni rappresentative (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Banca centrale europea), lungi dal delineare una qualche praticabile soluzione alla crisi, mediante la cosiddetta mitica “crescita”, stanno portando al suo aggravamento, con l’infilarsi di tutti i Paesi nel tunnel senza uscita della recessione e del double dip (il “doppio tuffo” nel vortice senza fondo della disoccupazione e della miseria).
Nel mio piccolo, pur non essendo un esponente del pensiero economico, avevo indicato tale problematica come decisiva, unitamente a quella della perdita di controllo sui mercati finanziari, nel corso XVII Congresso dell’Associazione internazionale dei giuristi democratici svoltosi ad Hanoi dal 6 al 10 giugno 2009 e in particolare nella mia introduzione ai lavori della IV Commissione sulla globalizzazione e i diritti economici, sociali e culturali, che presiedevo.
Ciò è confermato dalla drammatica situazione che stiamo vivendo. L’impossibilità della gente, anche negli “avanzati” Paesi europei, di condurre una vita degna e di soddisfare i più elementari diritti fondamentali di ordine economico, sociale e culturale, ma anche civile e politico, strettamente connessi con i primi come rilevato dalla Conferenza di Vienna sui diritti umani del 1993, produce una spirale deflattiva e precipita l’insieme dell’economia nella crisi.
Diritti umani e rilancio economico, come affermato da studiosi come Vandana Shiva e Amartya Sen, non sono affatto antitetici, ma assolutamente complementari e sinergici.
Ciò comporta la necessità urgente di mettere in discussione l’attuale modello economico basato sull’arricchimento del potere finanziario a spese del popolo. Ci stiamo invece pericolosamente avviando alla seconda fase di questo processo micidiale. Dopo la spremitura dei debitori ridotti al di sotto del livello di sussistenza, il governo Monti da noi e gli altri governi vuole aprire la fase della svendita dei beni pubblici da offrire al migliore offerente, ovviamente dotato dei mezzi finanziari adeguati. Un copione già tristemente conosciuto nel Terzo Mondo e cui solo la sollevazione dei popoli contro il neoliberismo sta ponendo un argine, come illustrato dalle sacrosante misure di nazionalizzazione avviate dal governo di Evo Morales in Bolivia e da quello di Cristina Fernandez in Argentina.
Ciò comporta anche un rilancio dell’iniziativa dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Da questo punto di vista va giudicata grave la decisione dei sindacati confederali di rinviare a settembre lo sciopero contro le gravi misure antioperaie decretate da Monti e Fornero, che si avvalgono dello scandalo degli esodati come arma di ricatto per ottenere l’eliminazione dell’art. 18 e un generale arretramento della condizione normativa dei lavoratori. Occorre invece scioperare e scendere in piazza domani con i sindacati di base, come l’USB, e con la FIOM.
Occorre anche operare per la ricomposizione del fronte del lavoro. Da questo punto di vista mi sembrano interessanti e stimolanti le proposte formulate da Giuseppe Allegri su Quinto Stato in riferimento alle problematiche del crescente settore dei lavoratori indipendenti:
1. Riduzione delle forme di contratto precarie e flessibili a massimo quattro tipologie, con un corredo di diritti fondamentali di base universali;
2. Tutela del lavoro autonomo di seconda e terza generazione introducendo un “equo compenso” e soprattutto a partire da una redistribuzione delle aliquote della Gestione Separata INPS (adeguando il carico contributivo del lavoratore a quello che le imprese versano per i propri dipendenti, portando al 24% il versamento individuale e all’8 o al 9% il diritto di rivalsa nei confronti del committente; in questa redistribuzione dei carichi contributivi spostare almeno un 3% di questa quota alle tutele sociali, introducendo garanzie di continuità di reddito, maternità, malattia e diritti sociali anche per i lavoratori indipendenti e autonomi, attualmente esclusi da qualsiasi tutela);
3. Introduzione di un reddito garantito di base, come ci chiede l’Unione europea dal 1992, essendo l’Italia – insieme alla Grecia, guarda un po’! – l’unico Paese dell’UE a 27 Stati a non avere questo strumento di inclusione sociale;
4. Prevedere una delega di riforma degli ammortizzatori sociali”.
Proposte di buon senso che però, proprio per questo, hanno scarsa possibilità di essere accolte dall’attuale Parlamento scollegato dall’attuale società italiana, ma che devono contrassegnare qualsiasi azione volta a una crescita effettiva imperniata sul riconoscimento dei diritti di chi nei fatti opera alla creazione della ricchezza nazionale contro il parassitismo del potere finanziario e delle sue appendici partitiche con o senza elle.