Certi economisti immaginano un mondo dove gli economisti sono economisti, i medici sono medici, gli urbanisti sono urbanisti. Tutto in ordine. Ma il mondo, per sua invariabile natura, non è ordinato.
Due signori che trasportavano la spesa discutevano animatamente del Pil.
Uno non sapeva cosa fosse esattamente questo Pil, però ne sentiva parlare sempre in tivvù.
L’altro gli spiegava che mentre spingevano il carrello, spingevano anche il Pil, diceva che era angustiato dalla previsione sentita in tivvù del crollo di questo benedetto Pil e che, da quando aveva comprato la sua prima televisione, il Pil crollava, poi cresceva e poi di nuovo prendeva un segno negativo davanti. Che era calato a meno cinque e che non risaliva più. Un cosa mai vista, una catastrofe.
Uno giurava che lui di questi cambiamenti non si era mai accorto, che, sì, ne aveva sentito parlare ma non lo aveva mai incontrato il Pil nella sua vita. Tanto monotona, la sua vita, che l’avrebbe potuta raccontare in pochi minuti. Che, però, si poteva vivere anche senza Pil e che di questo era certo, visto che per millenni di Pil non se n’era mai parlato.
L’altro gli rispondeva che il Pil esisteva anche prima che se ne parlasse, come i germi prima che gli uomini li scoprissero. E continuando la controversia si sono allontanati nel piazzale rovente del supermercato.
Questo aneddoto qualche verità la contiene.
Certo, il Pil è il Pil e non dovrebbe essere altro che il Pil. Uno strumento di misura. Un termometro che rileva la temperatura e oltre non va. Registra solo un aspetto della realtà che però non ne vuole sapere di farsi misurare.
Ma la politica, i governi, i capi di stato, le nazioni, il mondo sono guidati dal Pil. E se un uomo politico, dal più microscopico candidato sindaco al più astuto statista, non utilizza il Pil come bussola non ha speranza di farsi eleggere e, quindi, di farsi sentire.
Eppure misurare il mondo e il creato con i consumi, gli investimenti e le esportazioni – il Pil questo è – senza considerare che in mezzo ci sono i beni e i servizi consumati e trasformati per arrivare a creare nuovi beni e nuovi servizi, in eterno, pesare la felicità della nostra specie in base a quanto produce, investe ed esporta, tutto questo rappresenta una visione pericolosa, grande e miserabile nello stesso tempo.
E quando un arnese, che è solo un arnese, si maschera come se fosse una filosofia, allora la realtà si deforma pericolosamente. Insomma, qualche malanno c’è in questo potere crudele del Pil, nelle politiche decise per aumentare il Pil che cresce solo se consumiamo merci, terre, aria e acque. Il Pil è una creatura mitologica e mostruosa che per mantenersi deve consumare e produrre all’infinito.
I due anziani del supermercato, lo sviluppista e l’indifferente alla caduta del Pil, sono un’allegoria perfetta. La loro discussione si sente, identica, dappertutto. In fabbrica, in ospedale, nelle università e finalmente perfino nella nostra politica ritardataria che è costretta a chiedersi cosa significa davvero la parola sviluppo, tanto ripetuta da non possedere più un significato nel mondo reale che gira, come vuole lui. Tanto che gli economisti – ma non la politica – utilizzano da molti decenni anche altri parametri che misurano la felicità di un Paese. E con sorpresa vediamo che popoli che raggiungono Pil modesti – e che ignorano cosa sia il Pil – ottengono una qualità della vita altissima e sono perfino felici.