E’ molto difficile dire qualcosa di originale sulle Finali NBA 2012. Ma forse queste 5 partite che tra qualche ora verranno definitivamente liofilizzate nell’incoronazione del Re (alias Lebron James) ci hanno suggerito anche temi di portata più ampia. Impossibile non partire dalla figura dell’MVP (Most valuable player), diventato campione a 28 anni come Michael Jordan e come Michael Jordan passato attraverso brucianti delusioni e feroci critiche. Sarebbe il caso, quando sarà il turno del prossimo Jordan o Lebron, di giudicare il talento individuale per quello che è. Una cosa cioè straordinaria ma solo necessaria, e tutt’altro che sufficiente, per vincere in uno sport di squadra. In cui per vincere devono incastrarsi vari elementi, perché uno non basta mai. Ecco, la reductio ad unum è fuori luogo sia quando serve a immolare una vittima che quando viene usata per celebrare il campionissimo. Il metodo Torquemada non si adatta agli sport di squadra, e le Finali non sono un’ordalia che tutto annulla e supera, ma solo un momento di clamorosa intensità che stabilisce chi in quel momento è più pronto a farsi visitare dalla Vittoria.
Ci sono squadre, Chicago, Boston e San Antonio, che sull’arco dell’intera stagione hanno fatto vedere un basket più completo e maturo di quello degli Heat. Se la carta di identità dei quattro moschettieri di Oklahoma City fosse stata diversa forse avremmo visto un esito opposto, perché nessuno mi toglie dalla testa che i Thunder, in laboratorio, siano più forti degli Heat. Ma era il momento di Lebron e di tutti gli altri, e quel momento si è compiuto. Prima di dimenticare tutto quello che non porta una maglia numero 6 e si fa fare degli anelli speciali da portare al dito, credo valga la pena di tenere una prospettiva più ampia.
Mini PS: tutti quelli che hanno perso in questi playoff hanno accettato il verdetto con classe e compostezza. L’abbraccio tra sconfitti e vincenti in questa e nelle altre serie è stato un momento bello, al di là dei luoghi comuni. Come è stato bello non sentire Durant lamentarsi per l’indubbio fallo subito in una delle azioni finali di Gara 2. Credetemi, i Thunder schiumano rabbia come e quanto qualsiasi altro sconfitto. E siccome non credo alla barzelletta che tutti quelli che hanno a che fare con l’NBA abbiano una cultura sportiva individualmente superiore, rimane solo una possibile interpretazione. Quella cioè che rimanda alla necessità, per una lega professionistica, di credere e far credere nel senso dello sport per motivi, come minimo, commerciali. Non significa credere che il paese delle meraviglie di Alice esista e men che mai coprire le magagne. Si tratta semplicemente di comprendere che questa cosa che ci fa girare la testa, lo sport, non è una scienza esatta. E che per sua natura è influenzato ed influenzabile da fattori esterni, quorum arbitri ed affini. Ma ridurlo a questo è come ridurlo al risultato dell’ultima partita o dell’ultimo tiro, e significa perdersi tutto quello che c’è intorno. Cioè, tantissima roba.