Il governo “frenteamplista” uruguayano ha deciso di legalizzare il commercio di marijuana. O, più esattamente: ha lanciato un programma in virtù del quale (ancora è da vedere quando e come) sarà il medesimo Stato a commercializzare, in forma monopolistica, tutti i derivati della cannabis. Questo è quel che più immediatamente risalta (e che, ovviamente, più spazio ha trovato nei media) dalla lettura dei 15 punti del “Piano strategico per la vita e la convivenza” presentato martedì scorso in una conferenza stampa dai responsabili di ben tre ministeri: Eduardo Bonomi (Interni), Daniel Olesker (Sviluppo Sociale) e Eleuterio Fernández Huidobro (Difesa).
Tema centrale del Piano – non per caso preceduto, martedì sera, da un discorso alla Nazione del presidente José Mujica – è in realtà quello della “sicurezza”. Vale dire: il crescente malessere cittadino di fronte ad una criminalità sempre più diffusa e feroce, prevalentemente connessa all’espandersi dell’uso della cosiddetta “pasta base” (il crack) tra i minorenni dei ceti meno abbienti. Le statistiche dicono che l’Uruguay è, numeri alla mano, il più sicuro dei paesi latinoamericani. E, in effetti, nulla di quel che accade nella tutto sommato placida Montevideo rammenta, sia pure alla lontana, i quotidiani massacri che si consumano in varie parti del Messico, nelle favelas di Rio, o per le strade di Caracas. Ma poco importa. Le statistiche non sono mai state, notoriamente, una buona terapia contro la paura.
E la gente, in Uruguay, oggi ha paura, sente in modo sempre più doloroso, sulla propria pelle, gli effetti di quello che lo stesso preambolo del Piano del governo descrive come “una frattura sociale e rottura culturale”. Non più d’un paio di settimane or sono, l’omicidio a freddo, nel corso d’una rapina, d’un cameriere del ristorante “La Pasiva”, in un quartiere della capitale, ha generato un’ondata di sdegno che s’è rapidamente trasformata in una manifestazione spontanea sotto il palazzo della Presidenza. E la campagna – organizzata dai partiti di opposizione – per un referendum che reclama l’abbassamento a 16 anni dell’età per giudicare nei tribunali ordinari i responsabili di crimini violenti ha raccolto in breve tempo ben 370.000 firme.
Il Piano strategico presentato martedì si propone, con tutta evidenza, come una risposta ragionata, non puramente repressiva, al problema che oggi più angustia la pubblica opinione. E – partendo da un’analisi delle cause storico-sociali del fenomeno della diffusione della droga tra i giovani – avanza una serie di proposte. Non tutte queste proposte vanno in direzione “liberalizzante” (particolarmente preoccupante appare, anzi, quella che chiede una regolamentazione dei mezzi d’informazione, dai giornali, alle tv alle reti sociali). Ma tutte sono state in qualche modo oscurate dalla scelta – effettivamente clamorosa – d’affidare allo Stato la distribuzione della marijuana. Distribuzione non “libera”, come lo stesso Mujica ha precisato ieri in un’intervista a “o Globo”, ma riservata, sulla base di ben precisi limiti di consumo, a clienti registrati.
Un’idea coraggiosa? Un’idea balzana? Una risposta frettolosa ed improvvisata alla pressione politico-sociale generata da un problema che il governo di sinistra – per ideologica deformazione convinto fino a ieri che quella della sicurezza fosse un’ossessione propria “de los de Pocitos”, di quelli di Pocitos, il quartiere chic di Montevideo – ha per troppo tempo sottovalutato? Tutti hanno immediatamente cominciato a rispondere a modo proprio a queste domande. Ed è certo che non mancano – anche per i molti che sono favorevoli alla piena legalizzazione della marijuana – le ragioni di perplessità. La proposta ha l’ovvio obiettivo di sottrarre al narcotraffico una fonte di reddito e, al tempo stesso, quello di rompere la catena che lega il consumo di droghe leggere alla plaga della “pasta base”. Ma esiste ancora (o è mai davvero esistita) questa catena? E, se esiste, è davvero attraverso la burocratica creazione di un monopolio di Stato (da sempre prima causa di mercato nero) che vanno combattuti i perversi effetti del proibizionismo? E quali possono essere gli effetti della legalizzazione in un solo paese?
Quello che tuttavia più conta è, a questo, punto, il contesto nel quale nasce la proposta uruguayana. Un contesto che il ministro della Difesa, Eluterio Fernández Huidobro, ha così molto efficacemente definito: per noi, ha detto in sostanza, si tratta anche di “una questione di politica internazionale”. La guerra alla droga dichiarata da Nixon quarant’anni fa è finita, ha aggiunto, ed è finita con una sconfitta. È giunto il tempo di cercare altre strade. Dichiarazioni analoghe – proposte di armistizio, per molti versi – sono venute, nei mesi scorsi, da altri presidenti latinoamericani. Dal guatemalteco Otto Pérez, al colombiano Manuel Santos…
Qualcosa – anche se, per gli USA, la guerra continua – sta cambiando alla periferia dell’impero (quella che nella guerra alla droga ci ha messo i morti). Forse la strada intrapresa dall’Uruguay non è quella giusta. Ma vale comunque la pena cominciare a camminare…