L’ultimo capitolo della vicenda agghiacciante sulla trattativa o meglio sulle trattative tra Stato e Cosa Nostra registra l’irruzione, con un intervento senza precedenti nella storia repubblicana del presidente Giorgio Napolitano.
Il presidente della Repubblica, mentre si accumulano i verbali delle rassicurazioni indirette, tramite il consigliere giuridico-suggeritore Loris D’Ambrosio, ma pare anche dirette da parte dell’inquilino del Colle all’ex ministro dell’interno Nicola Mancino, ha ritenuto opportuno intervenire non solo a difesa del proprio operato, ma con un attacco inusuale all’informazione non allineata.
Napolitano ha parlato di diffusione “di pagine con conversazioni intercettate” di cui “sono state date interpretazioni tendenziose e versioni talvolta manipolate ” per screditare il suo operato e ha garantito i cittadini sulla sua assoluta fedeltà alla Costituzione.
Ma è anche andato all’attacco sulle intercettazioni sollecitando un intervento non più procrastinabile da parte del Parlamento per regolamentarle e cioè in concreto, limitarle nell’uso e nella diffusione con pene fino a tre anni come per i giornalisti come previsto nell’ultimo ddl, ovviamente con consenso bipartisan.
All’interventismo quotidiano del Capo dello Stato ci siamo forse ormai abituati, anche se sarebbe legittimo domandarsi se corrisponda allo spirito della Costituzione vigente, di cui tutti si riempiono la bocca, ma che viene sempre più affossato nella pratica.
Ma la domanda ineludibile è se, prima e dietro l’ultima esternazione quirinalizia non solo difensiva, il comportamento del Capo dello Stato e dei suoi più stretti e fidati collaboratori sia stato, su una vicenda di assoluta gravità e di primaria importanza sotto il profilo della indipendenza tra i poteri dello Stato, pienamente aderente al dettato costituzionale.
Era forse compito e dovere del consigliere giuridico del Quirinale che si dichiara al telefono sempre in costante sintonia con la presidenza della Repubblica prestarsi a raccogliere quelli che vengono derubricati a “sfoghi” da parte di un indagato per false comunicazioni ai PM, quale è l’ex ministro ed ex vicepresidente del CSM Nicola Mancino? Dove prevede la Costituzione che il suo massimo garante tramite un consigliere giuridico o peggio ancora senza mediazione alcuna, come risulta da brogliacci di trascrizioni telefoniche, rassicuri un indagato terrorrizzato dall’interrogatorio e più ancora dal confronto con altri due testimoni in grado di smentirlo, gli ex ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli?
E soprattutto come si fa a giustificare l’attivismo e la concitazione di cui lo staff quirinalizio si fa interprete e promotore in forza di supposte esigenze di coordinamento delle indagini tra procure a cui si appella un po’ vagamente Napolitano (disciplinate peraltro in modo adeguato ed esaustivo dal codice di procedura penale e non pertinenti al caso)?
Il presidente della Repubblica ha ribadito la bontà del suo operato e la correttezza dei suoi diretti collaboratori, difesi strenuamente per difendere se stesso, sostenendo che sempre e comunque il suo comportamento è stato motivato “dall’accertamento della verità” sulle “orribili stragi del ’92-’93“.
Solo che molto concretamente dietro a queste dichiarazioni di intenti chiarificatori rimangono dei documenti che proverebbero il contrario, come il verbale di riunione del 19 aprile 2012 a palazzo Cavour sede della Cassazione, dopo che Loris D’Ambrosio aveva rassicurato Mancino sull’ intervento di Napolitano: “Adesso io parlo con il Presidente e lui chiama Grasso.” Da quella riunione, secondo i desiderata dei promotori, sarebbe potuta o dovuta uscire una agognata avocazione da parte del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso dell’inchiesta molto scomoda che turbava i sonni di Mancino e molti altri potentissimi della prima e seconda Repubblica, da Calogero Mannino a Marcello Dell’Utri.
Solo che come ha rilevato Piero Grasso, che aveva già fatto un incontro con le tre procure interessate di Palermo, Caltanissetta e Firenze impegnate su fronti non connessi già nell’aprile 2011, non esistevano violazioni tali da configurare l’ipotesi di avocazione prevista dall’art. 371 bis c.p.p. Senza contare il non piccolo dettaglio che l’istituto dell’avocazione e cioè la sottrazione dell’inchiesta al giudice naturale da parte della procura generale presso la corte d’appello o dei magistrati della direzione nazionale antimafia è stato sinonimo quasi ininterrottamente nella storia repubblicana di tentativi di insabbiamento delle indagini.
E la sua natura eccezionale è peraltro confermata dalla formulazione dell’art. 371 bis (Attività di coordinamento del procuratore nazionale antimafia) che la prevede solo ed esclusivamente nel caso di “prolungata e ingiustificata inerzia” del PM o nel caso di “ingiustificata o reiterata violazione dei doveri di coordinamento” in indagini collegate. E data la gravità della misura, la legge prevede anche che il decreto con cui viene disposta l’avocazione sia motivato e che il magistrato che la subisce possa ricorrere contro il provvedimento davanti al procuratore generale presso la Cassazione.
Non a caso “gli sfoghi” di Nicola Mancino finalizzati alla cosiddetta “unificazione” dei procedimenti, per sfilare l’inchiesta a Palermo, erano arrivati, tramite lettera inoltrata dal segretario generale Donato Marra e supervisionata dallo stesso Napolitano, al procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani che a seguire aveva convocato Piero Grasso.
Il ministro Severino in risposta all’interpellanza di Antonio Di Pietro sulla opportunità di istituire una commissione parlamentare di inchiesta “per accertare responsabilità politiche delle istituzioni” ha obiettato che non vi sono “violazioni di legge” che autorizzino iniziative del Ministero.
Ma al di là di specifiche violazioni di legge il combinato disposto dell’ attivismo del Quirinale, che esula dallo status di parte super partes come dal ruolo di presidente dell’organo di autogoverno dei magistrati, e del richiamo ultimativo a fare presto sul ddl anti-intercettazioni per autotutelare il sistema, è una palese rivendicazione di appartenenza alla casta. Ed un un pessimo modo per concludere un settennato che ha fatto rimpiangere quelli precedenti.