“Se ci sono stati, come sembrerebbe, degli abusi gravi, è giusto che vengano colpiti’”. È un condizionale della discordia che torna a creare polemica a distanza di 24 ore dalla sentenza della Cassazione sul processo Aldrovandi.
Quel “sembrerebbe” è uscito dalla bocca del ministro dell’Interno. Annamaria Cancellieri, nel commentare la condanna dei poliziotti, ha premesso all’agenzia Asca che “ho grandissimo rispetto per quello che decide l’autorità preposta perché guai a mancare di rispetto e fiducia nella magistratura’”. Dopo la premessa d’obbligo la Cancellieri ha aggiunto che ‘”se ci sono stati, come sembrerebbe, degli abusi gravi, è giusto che vengano colpiti”. Il riferimento è alla richiesta dei genitori di Federico Aldrovandi di unire a livello disciplinare i quattro agenti, ora che la sentenza è definitiva.
Il ministro ha chiesto in ogni caso di non dare “giudizi sommari perché la polizia non lo merita”: oltre ai poliziotti di Aldrovandi “ce ne sono tantissimi che tutti i giorni rischiano la propria vita e si sacrificano per il Paese e lo fanno con grande dedizione”.
Parole che Lino Aldrovandi e Patrizia Moretti faticano a capire, dal momento che il ministro “interviene nella nostra vicenda oggi , quando è stata messa la parola fine ad ogni discussione sulla verità di quanto accaduto a nostro figlio”.
In merito alle dichiarazioni riportate dall’agenzia, i genitori di Federico ricordano che “il ministro dell’Interno, nei primi mesi successivi alla morte di Federico, ci aveva voluto incontrare ed aveva chiesto per noi che si facesse luce su quanto accaduto attraverso un regolare processo”. Il riferimento ovviamente, dato che la morte del ragazzo risale al settembre 2005, è al titolare del Viminale di allora, Giuliano Amato.
Era il 2 settembre del 2006. Il “dottor Sottile” – a Ferrara per impegni istituzionali e di partito – incontrò informa privata il padre di Federico, confidandogli che si augurava un processo (allora si era ancora in fase di indagini preliminari) per accertare se vi fossero state responsabilità nella morte del giovane.
Da allora sono passati sei anni di processi, tre gradi di giudizio e altrettante condanne. Ma il ministro è un altro. Quello di oggi “usa il condizionale o la formula dubitativa per interpretare il caso Aldrovandi. Perché – si chiedono i genitori – usa il connazionale quando il suo ruolo istituzionale non lo permetterebbe? Perché mette le mani avanti dichiarando rispetto per la magistratura mettendone poi in dubbio l’operato? Quel condizionale signor ministro è fuori luogo , inopportuno e poco rispettoso delle istituzioni”.
Un condizionale insomma che non si può essere accostato agli “abusi tanto gravi da provocare la morte di un ragazzo appena maggiorenne incensurato e di buona famiglia. Padre poliziotto e nonno carabiniere”.
“Quel padre poliziotto e quel nonno carabiniere – chiudono i genitori – che appartengono alle forze dell’ordine di cui lei giustamente parla, hanno pazientemente aspettato 7 anni di processo e tre sentenze per veder riconosciuta quella verità terribile che sempre hanno saputo. Auspicheremmo uguale rispetto da parte sua”.
La firma di questa lettera aperta termina con una sigla che, per i mittenti, vale più di ogni altra parola. “Patrizia e Lino Aldrovandi, genitori di Federico, morto per colpa di quattro poliziotti tutt’ora in servizio”.