Il direttore di TgLa7 spiega a il Fatto le sue perplessità su chi fa appello al silenzio o pensa che ci siano cose su cui è meglio non scrivere. "E' evidente, una cosa è usare strumentalmente un'indagine, altra è il diritto della libera stampa di pubblicare notizie o fare domande"
I toni sono quelli dei momenti gravi: attentati alla democrazia, campagne d’irresponsabilità, attacco delle istituzioni. Le indagini sulla trattativa Stato-mafia, infiammano i cuori, le parole (per non dire delle penne). E’ lecito fare appello al silenzio? C’è davvero qualcosa che non si può scrivere, tanto da invocare un rapido bavaglio? Lo abbiamo chiesto a Enrico Mentana, direttore del TgLa7.
Direttore, perché tutti si stracciano le vesti?
Il timore è che si usi la trattativa per indebolire Napolitano. La stessa situazione di 19 anni fa, quando la vicenda dei fondi neri del Sisde fece dire a Scalfaro il suo famoso “Non ci sto”. E’ evidente, oggi come allora, che una cosa è usare strumentalmente un’indagine, altra è il diritto della libera stampa di pubblicare notizie o fare domande.
Ci sono controindicazioni in quest’alzata di scudi?
Il rischio è che qualcuno possa dire: ma perché con Berlusconi non avete usato questi riguardi? Si possono fare dieci domande a Berlusconi, come fece sacrosantamente un grande giornale come Repubblica, e poi dire che non si possono fare a Napolitano? Prima o poi qualcuno tirerà fuori questo argomento. E’ assolutamente legittimo dire “teniamo fuori il Capo dello Stato, che è persona integerrima, dal polverone dello scontro”. Ma può diventare una difesa dannosa.
L’interesse della Presidenza della Repubblica è la chiarezza.
Ma anche la preservazione dell’istituzione. Il punto è che questa vicenda è molto spinosa. Il sospetto che pesa sulle istituzioni è terribile ed evidentemente ha degli elementi di fondamento. Però il terreno è sdrucciolevole, se perfino il magistrato che segue le indagini parla di non rilevanza penale ma di rilevanza storica.
A cosa pensa?
La mia paura è che nella ricerca della verità si mettano insieme fatti e fattoidi. Ho letto oggi la ricostruzione della trattativa, scritta da un autorevole cronista, esperto di mafia. A un certo punto si parla di Scotti e Martelli, all’epoca ministri, sacrificati alla trattativa e sostituiti uno da Mancino e l’altro da Conso. Io già dirigevo un telegiornale, il Tg5: ricordo che Martelli si dimise per lo scandalo del conto Protezione. Che venne fuori durante un interrogatorio di Antonio Di Pietro a Silvano Larini. Una visione dietrologica dovrebbe far dire che fu Di Pietro a far cadere Martelli e allora anche Di Pietro avrebbe una parte nella trattativa. E’ chiaro che quel cambio della guardia al ministero non ha nulla a che fare con la trattativa.
Che idea si è fatto?
Io credo ci siano stati approcci tra uomini dello Stato e di Cosa Nostra per fermare le stragi, ma il pericolo è che mettendo tutto nel frullatore si arrivi solo a teorie cospirazioniste. Guardiamo le incongruenze, ma cerchiamo di appoggiarle su basi solide.
Dal punto di vista di chi fa informazione…
…Alt: tutto – sottolineo, tutto – nel rispetto delle leggi vigenti, si può scrivere e sostenere. Se un giornale scrive che ci sono stati dei colloqui telefonici tra Mancino e Napolitano e che i magistrati li hanno ritenuti irrilevanti, lo può fare. Fino a smentita, è vero. E non per questo i giornali devono passare per nemici delle istituzioni. Sia chiaro: la libertà di stampa è una cosa seria, nella buona e nella cattiva sorte.
A proposito: recentemente si è sentito dire, da Eugenio Scalfari, che è sulla buona strada per “diventare il pericolo pubblico di tutti i democratici”.
Ci sono dei momenti in cui dare tutte le notizie piace alla gente che piace – come diceva una vecchia pubblicità. E ci sono dei momenti in cui non tutte le notizie piacciono alla gente che piace. Io ritengo il capo dello Stato un galantuomo, ma può capitarmi di dare delle notizie che non fanno piacere al telespettatore Giorgio Napolitano. Il mio dovere di giornalista è dare le notizie. Da questo a cavalcare una tesi, secondo me, ce ne corre.
Comunque stiamo parlando di una vicenda su cui tutto quello che si può, si deve assolutamente fare per arrivare alla verità.
Ciò che aiuta la chiarezza è benvenuto. Tra i segreti da non preservare sicuramente ci sono quelli sulla trattativa. Più cose stanno alla luce del sole, più i cittadini sono informati, più le istituzioni possono serenamente fare il proprio lavoro.
Che effetto le fa veder rispuntare la legge sulle intercettazioni, con uno sponsor tanto autorevole come il presidente Napolitano?
E’ sempre successo: quando si scopre che le intercettazioni riguardano il palazzo, il riflesso condizionato è invocare una legge. In passato c’è stata diffidenza, nel timore di tutelare Berlusconi. Però, poi capita che persone che hanno lottato contro la legge bavaglio, si trovino ora a favore delle parole di Napolitano… dell’ex premier abbiamo sentito perfino le telefonate con le ragazze, ma a maggior ragione questo deve valere per tutti: non si può sostenere che esisteva un diritto sostanziale finché Berlusconi era a Palazzo Chigi e ora non c’è più. Il problema evidentemente c’è.
Crede che una legge sulle intercettazioni sia necessaria?
Sì, è giusto e utile che la materia venga regolata. Sarebbe bello che i giornalisti facessero più proposte e meno i pesci in barile. A mente serena bisogna riuscire a dire: non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Dove, in questo caso, l’acqua sporca è il sospetto, l’indeterminatezza delle accuse a tutto campo sulla trattativa. Ma il bambino è la libertà di informazione. E non è figlio di questo o quel giornale. E’ di tutti i cittadini: con il bavaglio non si risolve nulla.
da Il Fatto Quotidiano del 23 giugno 2012