Una presidenza che riporta speranza nella democrazia ma che dovrà fare i conti con l’esercito e la tutela dei valori della rivoluzione. E’ questo il difficile mandato di Mohammed Morsi, la prima personalità civile eletta dal popolo a guidare l’Egitto dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011. Secondo i dati comunicati oggi dalla Corte Suprema Elettorale il candidato dei Fratelli Musulmani ha vinto con il 51,7% dei voti battendo il suo rivale, l’ex primo ministro di Mubarak Ahmed Shafiq. La notizia è subito rimbalzata in tutto il paese e ha fatto esplodere i festeggiamenti a Piazza Tahrir dove centinaia di migliaia di persone si erano radunate, continuando il sit-in di protesta per li ritardo nella comunicazione dei risultati iniziato mercoledì.
Alla festa si aggiunge, però, non solo una complicata situazione economica, la preoccupazione per una presidenza attesa per mesi come il compimento della transizione militare e che ora invece, sembra essere diventata un secondo punto di inizio per l’iter democratico.
Morsi dovrà, infatti, convivere con i militari. Questi, nonostante continuino a promettere la fine della transizione il 30 giugno, si sono assicurati di nuovo nelle ultime settimane una grossa fetta di controllo del Paese riprendendo in mano il potere legislativo a seguito dello scioglimento del parlamento. A ciò si somma l’aggiunta costituzionale, emanata la scorsa settimana, che limita fortemente i poteri del presidente. Gli emendamenti, che integrano la dichiarazione costituzionale del marzo 2011, prevedono che i militari abbiano diritto di veto sulla dichiarazione di guerra e diritto decisionale dei lavori dell’assemblea costituente. Tra potere legislativo e interferenze dirette sul presidente, Morsi si ritroverà a essere un capo di stato a metà per un lungo periodo, almeno un anno del suo mandato, il tempo di formare una nuova assemblea costituente e di rieleggere il parlamento.
La pesante influenza dei militari però non è solo l’unico limite di Morsi che nelle settimane tra il primo e il secondo turno ha cercato in tutti i modi l’appoggio della parte laica e rivoluzionaria del paese proponendosi come il “candidato della rivoluzione”. Una mossa che ora si carica di aspettative anche alla luce delle dichiarazioni fatte nei giorni scorsi sulla formazione di un gabinetto rappresentativo del paese, sul modello di un governo di salvezza nazionale.
Chi è Morsi. Sessant’anni e un Phd conseguito in California, Morsi vanta una trentennale militanza nel movimento sin dagli anni dell’Università, quando i Fratelli Musulmani erano banditi dalla vita politica del paese. Il suo primo incarico importante arriva nel 1995. In quell’anno entra a far parte del comitato decisionale e viene eletto per la prima volta in parlamento da indipendente.
Da allora la sua carriera è una parabola in ascesa: 10 anni dopo, nel 2005, diventa portavoce del movimento ed è il candidato più votato alla Camera ma nel maggio 2006 viene arrestato assieme ad altri membri degli ikhwan per aver sostenuto una campagna contro presunte frodi elettorali durante le parlamentari dell’anno prima.
Dopo la rivoluzione e la riabilitazione dei Fratelli Musulmani nella vita politica del paese, nell’aprile del 2011 (il movimento era stato bandito da Nasser nel 1954) Morsi si dimette dal comitato decisionale per fondare la costola politica degli Ikhwan, il Freedom and Justice Party, diventandone il presidente. Se la sua carriera politica è costellata di successi, il suo percorso verso la candidatura non è stato altrettanto facile. La sua investitura arriva, infatti, come “ripiego” dopo l’esclusione del numero due del movimento Khairat El Shater.
Così Morsi – personaggio decisamente poco carismatico agli occhi dell’opinione pubblica – in poco più di un mese di campagna elettorale, e con i sondaggi che lo davano al 3,6%, ha conquistato in extremis il 25% dei voti al primo turno, superano il suo rivale Ahmed Shafiq.