Morsi atteso da un compito importante, ma senza assegni in bianco perché è il primo esperimento di democrazia "islamica". Ma il Paese soffre, oltre che per i postumi del regime di Mubarak, anche per il colpo ricevuto al turismo durante la rivoluzione
Il gioco non ha pagato e nonostante il timore di brogli – l’annuncio dei risultati è stato rinviato per due volte – i militari alla fine sono stati costretti ad ammettere la sconfitta. Mohamed Morsi è il nuovo presidente dell’Egitto. Così dopo aver vinto le elezioni parlamentari – anche se il parlamento al momento è sciolto dopo la sentenza della corte costituzionale che ha annullato l’esclusione dei candidati legati al vecchio regime – i Fratelli Musulmani conquistano anche la presidenza dell’Egitto. All’annuncio della tanto agognata vittoria, ci sono state scene di esultanza in piazza Tahrir dove da tre giorni i militanti della Fratellanza sono accampati per protestare contro i due decreti emessi pochi giorni fa dai militari per sciogliere il parlamento e limitare i poteri del nuovo presidente.
Lo scenario che si apre ora, ancora una volta, è tutto da verificare. E se nel suo discorso della vittoria Mursi ripeterà ciò che ha detto tante volte in queste settimane, che cioè vuole governare collaborando con tutte le forze politiche e sociali egiziane, quello che resta da verificare sarà soprattutto la tenuta dei rapporti tra i nuovi vertici civili del più importante e popoloso stato arabo e quelli delle forze armate, che si sono dimostrate molto restie a lasciare il potere conquistato sull’onda delle manifestazioni di piazza dell’anno scorso. I generali hanno assicurato che a fine giugno ci sarà il passaggio di poteri, la cui importanza è stata più volte sottolineata dal principale fornitore di aiuti militari all’Egitto, cioè gli Usa.
Ma se dopo la cerimonia, che si annuncia “grandiosa”, il nuovo presidente sarà effettivamente in grado di governare, è tutt’altra questione. Dopo una lunghissima rincorsa iniziata dalla fondazione dei Fratelli Musulmani, nel 1928 proprio in Egitto da parte di Hassan al-Banna, l’Islam politico nella sua versione più “storica” è così chiamato alla prova del governo. Un governo difficile: la situazione economica del paese è molto precaria, sia per le ruberie di 30 anni di regime di Mubarak, sia per la crisi economica seguita alla rivoluzione – che, per esempio, ha dato un colpo micidiale al settore turistico, che non si è ancora ripreso. La disoccupazione galoppa, specialmente tra quei giovani che sono stati l’anima delle prime manifestazioni anti-Mubarak e il 40 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Lo slogan storico dell’Ikhwan, «l’Islam è la risposta», dovrà quindi provare di essere all’altezza delle sfide di una società complessa, in un modo molto più complesso di quello di 84 anni fa. Il resto del mondo, a partire dai paesi occidentali che hanno seguito e seguono con trepidazione lo svolgimento della rivoluzione egiziana, dovrà imparare a lasciar fare, a rispettare la scelta degli egiziani che hanno deciso di affidarsi alla Fratellanza per cercare di rimettere in sesto il paese e salvare anche le conquiste della rivoluzione.
Non è certo un assegno in bianco quello ricevuto da Mursi. Non solo perché gli occhi di tutto il mondo saranno puntati sull’Egitto e su quello che potrebbe essere un interessante esperimento di democrazia “islamica”, diverso sia dall’Iran sciita, che dalla Turchia. Soprattutto, sarà il popolo egiziano a vigilare che la presidenza di Mursi non si trasformi in un nuovo e diverso regime. Le mobilitazioni di piazza contro Mubarak hanno lasciato questa eredità: un governante può essere deposto. Nessun presidente egiziano può oggi ignorare che, ben prima dei militari e dei paesi più o meno alleati, il primo scrutinio sul suo governo verrà dai suoi concittadini che hanno smesso di essere e di sentirsi sudditi del potere.
di Joseph Zarlingo