L’emendamento alla Dichiarazione costituzionale reso noto domenica 16 giugno dal Consiglio supremo delle forze armate (Scaf), temendo o forse avendo sentore della vittoria di Mohamed Morsi proclamata ieri, rischia di essere la pietra tombale sulle speranze che la “rivoluzione dell’11 febbraio” avrebbe posto fine a un trentennio di violazioni dei diritti umani in Egitto.
Già tre giorni prima, il ministro dell’Interno aveva annunciato il conferimento alla polizia militare e ai servizi di sicurezza militari dei compiti di polizia giudiziaria, ossia poteri di compiere arresti e svolgere indagini su civili sospettati di aver commesso reati.
L’emendamento del 16 giugno è di fatto non una modifica ma una sovversione della Dichiarazione costituzionale del marzo 2011: allora, lo Scaf si era attribuito il potere di governare l’Egitto fino alle elezioni presidenziali e parlamentari; ora invece si attribuisce competenza pressoché su tutto, rimuovendo di fatto ogni forma di controllo delle istituzioni civili sull’operato dell’esercito.
Uno dei punti-chiave dell’emendamento autorizza il presidente dell’Egitto a chiedere alle forze armate di combattere “i disordini interni”, delegando alla legge il compito di determinare l’esatta giurisdizione dell’esercito, i suoi poteri di arresto e di detenzione e le condizioni relative all’uso consentito della forza.
L’emendamento rinvia alla legge anche per indicare “i casi di non responsabilità” dell’esercito, ossia quelli in cui le forze armate, nel fronteggiare i “disordini interni”, saranno immuni da indagini e procedimenti giudiziari.
Senza tornare indietro ai tempi di Mubarak, prendiamo l’ultimo trimestre del 2011 per ricordare in che mani sporche di sangue è finito tutto questo potere: 27 manifestanti uccisi nella protesta dei copti davanti a palazzo Maspero a ottobre, 50 nei pressi del ministero della Difesa, 17 di fronte al palazzo del governo a dicembre. Quasi 100 persone uccise in soli tre mesi e solo al Cairo, in quelli che ora si chiameranno “disordini interni”.
Un trattamento particolarmente brutale, nell’ultimo anno e mezzo, è stato riservato alle donne: costrette a sottoporsi a test di verginità in stato d’arresto (pratica poi dichiarata illegale, ma intanto uno dei medici coinvolti è stato assolto), brutalizzate e umiliate in pubblico, non protette dalle molestie sessuali. Il messaggio diretto a loro è chiaro: statevene a casa.
Da quando ha assunto il potere, anche quando i suoi soldati non si sono resi direttamente responsabili di arresti, uccisioni e torture, lo Scaf ha dato l’idea di voler lasciar esplodere la violenza e gli scontri di piazza (come nella strage dello stadio di Port Said; sull’esito dell’inchiesta promessa non si hanno notizie) per far capire alla popolazione che senza i militari il paese sarebbe precipitato nel caos.
L’emendamento alla Dichiarazione costituzionale del 16 giugno rende solo più trasparente la situazione. Gli Stati Uniti si sono detti preoccupati: vuol dire che cesseranno di mandare armi al Cairo, proprio ora che il candidato dei Fratelli musulmani è diventato presidente dell’Egitto?