Per troppo tempo non ho avuto il tempo di scrivere, e me ne dispiace. La realtà è che sono stata impegnatissima con il lavoro, al National Health Service, e il Labour Party. Ho organizzato alcune iniziative e pubblicato l’ultimo numero di Fabiana che, e ne sono contentissima, ha avuto un successo strepitoso! In questo post vorrei scrivere di Europa, come faccio spesso oramai (la lista delle mie pubblicazioni è disponibile qui).
Come prima cosa vorrei cominciare dalla Gran Bretagna. Trovo molto noiose e supponenti le lezioncine del Primo Ministro su come l’Europa dovrebbe comportarsi (come francamente sono abbastanza intollerante ai solleciti americani, su come dovremmo fare di più, quando la crisi di cui siamo vittime ha radici a stelle e strisce).
Mi sfugge davvero con quale coraggio Cameron possa ergersi a statista, dal momento che il suo governo ha perseguito (senza bisogno) politiche fondate esclusivamente sull’austerità e sulla tutela dei redditi del percentile più ricco della popolazione. I media raccontano quotidianamente di sfratti, di bambini che tornano a casa affamati da scuola perché le mense non hanno cibo in quantità (lasciando perdere la qualità, ovviamente). Eppure Cameron continua a incolpare l’Europa, e a promuovere il rigore britannico in antitesi alle circostanze drammatiche della moneta unica.
Non è un caso, dunque, che l’Europa domini il dibattito politico britannico.
Detto questo, vorrei cominciare dicendo che il Labour è un partito europeista. E non solo per ragioni puramente economiche, che valorizzano l’importanza del mercato unico e i benefici dell’integrazioni. Ci sono anche ragioni politiche e culturali, ed è di queste che vorrei parlare. Il radicalismo ‘con i piedi per terra’ di Ed Miliband ha molto in comune con la ricerca del terreno comune nella Sinistra europea.
Mentre scrivo giungono le agenzie della Reuters che riportano stralci del documento che verrà presentato il 28 e 29 giugno al vertice europeo. Si proporrebbe una spinta decisa verso l’unione bancaria e l’integrazione fiscale, con i tedeschi che premono sulla seconda, che per avvenire ha bisogno di una riforma del Trattato europeo e quindi richiederebbe più tempo. Al contempo, Hollande troverebbe una certa difficoltà nel convincere i francesi a perdere la propria sovranità in ambito fiscale.
In ogni caso, non c’è dubbio che la via d’uscita dalla crisi passi da una maggiore integrazione bancaria, fiscale e politica. Io sostengo che l’europeizzazione del debito sia un passaggio cruciale, così come un diverso ruolo per la banca europea per gli investimenti e politiche per la crescita di lungo termine. In aggiunta, quei paesi dove i tassi di interesse sono al minimo (come la Gran Bretagna) dovrebbero approfittare per prendere denaro a prestito, e investire.
In un dibattito recente, la Ministra Ombra laburista per l’Europa ha giustamente cercato di portare il dibattito ad un livello successivo. Non si tratta semplicemente di essere europeisti, ma anche di immaginare quale europea vogliamo costruire, e ha detto: ‘Vogliamo un’Europa socialdemocratica?’. Mi sembra questa la domanda cruciale.
Il Pasok in Grecia è uscito sconfitto, vittima dell’emorragia verso Syriza, della polarizzazione del dibattito politico, dell’ottusità delle politiche di austerità imposte dalla Germania, del fallimento dell’Europa, nata come ambizione progressista di tutelare le persone e la loro dignità, e invece riducendo intere famiglie a elemosinare un piatto di pasta. Il fallimento di quella idea di Europa, sancita nella strategia di Lisbona, ha portato a nazionalismi e a protezionismi, di cui un esempio è Alba Dorata.
Per come la vedo io, il problema fondamentale è che l’Europa che conosciamo adesso è il risultato di nazioni governate dalla destra, e la gestione della crisi ne è un chiaro esempio.
E dunque mi chiedo se, con Hollande in Francia, possa cominciare la svolta verso un’Europa socialdemocratica, fondata su priorità comuni, con una propria ragione di esistere nel mondo, con una visione nuova dello Stato, della spesa pubblica e delle responsabilità individuali e collettive.
È un dibattito che va iniziato ora, perché continuare a discutere solo di debito e finanze servirà (forse) ad uscire dalla crisi, ma non potrà creare le condizioni per definire cosa saremo nei prossimi cinquanta anni.
Credo che la generazione oggi al comando del Labour Party sia pronta ad un dibattito di questo tipo, e la solidità della narrazione che il leader sta costruendo (tutta in fieri, si intende) può incontrarsi con un cammino più ampio. È una sfida che ha bisogno di donne e uomini realistici; ma, se vogliamo creare un futuro per l’Europa, anche visionari.