Gli obiettivi del premier italiano in vista dell'eurosummit di giovedì e venerdì prossimo sono chiari, ma vanno contro la ferma volontà della cancelliera tedesca e del ministro degli Esteri Westerwelle. Che spiega: "L'Europa non solo può fallire per mancanza di solidarietà, ma anche per eccesso di solidarietà"
Un meccanismo di stabilizzazione dell’euro, ovvero degli spread tra i titoli di Stato dei diversi Paesi, pronto a reggere la prova dei mercati già da lunedì prossimo. E’ l’obiettivo che spera di portare a casa Mario Monti in occasione del vertice del 28 e 29 giugno, appuntamento decisivo per il futuro del Vecchio Continente. L’intervento del fondo salva Stati sul mercato secondario dei titoli, ha spiegato il premier nel suo intervento parlamentare di oggi, sarebbe garantito solo per quei Paesi in linea con la disciplina fiscale. Monti insomma si prepara alla battaglia in occasione di un vertice (preceduto questa sera dall’incontro tra i ministri delle finanze delle prime quattro economie dell’area) che vedrà quasi certamente la Germania sotto assedio in particolare sul tema degli eurobond. Oggi qualche quotidiano scrive di un Monti ormai esausto in fatto di compromessi e disposto addirittura a rassegnare le dimissioni in caso di nulla di fatto nell’incontro europeo. Voci di corridoio non confermate, per il momento. E intanto di eurobond torna a parlare apertamente anche Bruxelles, in attesa ovviamente che i rappresentanti della moneta unica decidano di raccogliere l’assist.
Herman Van Rompuy, José Manuel Barroso, Mario Draghi e Jean Claude Juncker. Si sono messi in quattro, in rappresentanza di altrettante istituzioni (Consiglio europeo, Commissione, Bce ed Eurogruppo) per redigere il documento chiave della giornata. “Towards a Genuine Economic and Monetary Union”, ovvero sette pagine di proposte indirizzate ai rappresentanti Ue. Un progetto di cui si chiede ora la valutazione e che si basa sui temi cardine dell’integrazione e dell’unione fiscale, della vigilanza e, nel caso, degli stessi eurobond. La strada, insomma, è tracciata. Per quanto, indubbiamente, difficile da percorrere.
Ne sono convinti, almeno per adesso, i mercati finanziari che oggi hanno reagito con scetticismo alla proposta dei quattro. In ribasso Milano (-1,11%) e Madrid (-1,44%), in lieve calo Parigi (-0,26), pressoché in parità Francoforte. In risalita gli spread con il divario tra decennali italiani e tedeschi a quota 465 punti mentre il differenziale Spagna-Germania tocca la soglia dei 530. In mattinata, intanto, attenzione puntata sulle aste di Roma e Madrid. Il Tesoro italiano ha collocato circa 3 miliardi di Ctz biennali ad un tasso del 4,7% contro il 4% registrato un mese fa e oltre 600 milioni di euro di Btp a quattro anni con un rendimento del 5,25% (4,39% nell’asta precedente). Negativo l’esito dell’asta spagnola sui titoli a breve termine: domanda in calo, sebbene ancora elevata, e tassi triplicati rispetto al collocamento precedente.
Il documento dei quattro, probabilmente, è quanto di più rivoluzionario possa realisticamente offrire oggi l’Europa. “Rivoluzionario” perché centrato su un’idea che è comunque ancora tabù (un accentramento dei poteri alla Bce), “realistico” perché, almeno a livello di proposte, non sarebbe davvero possibile andare oltre (vale a dire trasformare Eurotower in una vera banca centrale sul modello statunitense, britannico, giapponese e così via all’infinito). Nel dettaglio: l’Unione europea dovrebbe procedere verso “un quadro finanziario integrato” sotto un controllo maggiore da parte della Bce. In secondo luogo i limiti al bilancio dei singoli Paesi dovrebbero essere stabiliti in sede europea, il che, ad esempio, significa che i singoli Stati perderebbero l’esclusivo potere decisionale in merito a come e quanto indebitarsi sul mercato per lo meno oltre un certo limite. Le stesse politiche economiche andrebbero armonizzate a livello continentale contribuendo così al processo di integrazione. A quel punto, e solo a quel punto, potrebbe essere affrontato il tema caldo della condivisione del rischio: “In una prospettiva di medio termine – si legge nel documento – l’emissione di debito comune potrebbe essere valutata come un elemento di quella stessa unione fiscale essendo comunque soggetta alla crescita dell’integrazione stessa”. In pratica, sì agli eurobond ma solo in cambio di regole chiare e comuni.
Tutto bene, se non fosse per la domanda fondamentale: perché mai la Germania dovrebbe accettare una simile road map che portasse alla definitiva condivisione del rischio tra centro e periferie, tra nord e sud Europa? E infatti oggi sia Angela Merkel che Guido Westerwelle sono tornati sull’argomento. Ribadendo il loro secco no all’ipotesi. “Finché sarò in vita non ci sarà alcuna condivisione del debito” avrebbe detto la cancelliera durante un incontro con i parlamentari del partito liberale Fdp. Le parole della Merkel, però, non sono ufficiali: si tratta, infatti, di indiscrezioni riportate dall’agenzia Dapd, la stessa secondo cui il ministro degli Esteri, nel corso dello stesso incontro, avrebbe detto che la Germania ”continuerà a non accettare” gli eurobond perché “l’Europa non solo può fallire per mancanza di solidarietà, ma anche per eccesso di solidarietà”.
Quello dello scambio tra eurobond e integrazione è in realtà un tema molto vecchio. Barroso ne aveva già parlato con Monti alla fine di novembre, in un momento particolarmente critico per il mercato. Nel primo vertice a tre dopo il cambio di governo in Italia, Sarkozy rilanciò l’ipotesi mettendo sul piatto governance e sanzioni ma anche di fronte a quelle condizioni Angela Merkel non esitò a bocciare l’idea. All’epoca si ipotizzò che fosse solo questione di tempo. Un errore.
Nel novembre 2011 i titoli decennali tedeschi offrivano agli investitori circa il 2%, un livello molto basso che, implicitamente, rendeva gli eurobond particolarmente sconvenienti a Berlino (gli interessi pagati su un’emissione comune sarebbero stati sicuramente maggiori). Gli eurobond, ovviamente, non costituiscono un’alternativa alle emissioni nazionali. Ma dal momento che il loro collocamento comporta un onere per tutti i Paesi, il confronto con i rendimenti dei titoli dei singoli Stati diventa la misura del loro costo relativo. Quando lo scorso 23 novembre, con un tasso medio all’1,98%, l’asta tedesca sui decennali non riuscì a collocare un terzo dei titoli offerti, si pensò che il mercato avesse iniziato a considerare i bund ormai sopravvalutati (ovvero a giudicarne troppo bassi i rendimenti). In pratica, si ritenne che nei mesi seguenti i costi di indebitamento della Germania sarebbero saliti rendendo così l’ipotesi eurobond più accettabile. Nei primi mesi dell’anno i rendimenti sono effettivamente saliti ma in seguito, con l’aggravarsi della crisi, i bund sono tornati ad essere beni rifugio con gli interessi in forte discesa. Oggi, nonostante gli ultimi rialzi, i titoli decennali di Berlino rendono circa l’1,5%, un quarto in meno rispetto a novembre. La Merkel, nel frattempo, non ha minimamente cambiato posizione.
Modificato dalla redazione web alle 21 del 26 giugno 2012