Quella dei tecnici è stata, con ogni evidenza, la “bella pensata” del potere finanziario da un lato e di una classe politica oramai screditata e “alla frutta” dall’altro. L’idea, tutto sommato dal loro punto di vista buona, era solo che facendo appello alla presunta “superiore sapienza” di dotti e sperimentati specialisti dell’economia si sarebbero potuti imporre al popolo bue i sacrifici che neanche Berlusconi, da un lato, e il centrosinistra, dall’altro erano riusciti a far passare in tanti anni, nonostante gli sforzi.
La parola tecnici deriva com’è noto dal greco téchne, che si traduce comunemente come “saper fare“. I tecnici quindi sono coloro che, dato un certo obiettivo, studiano, formulano e propongono l’itinerario più adeguato per pervenire al conseguimento di tale obiettivo. Delegare il governo ai tecnici, rinunciando a definire l’obiettivo, significa quindi, da parte della politica, abdicare a quella che, a norma della Costituzione repubblicana, ma direi di ogni ordinamento giuridico, costituisce la sua funzione fondamentale, e cioè la fissazione degli scopi fondamentali da perseguire. Beninteso, già la nostra Costituzione contiene una serie di obiettivi fondamentali, primo fra tutti quello dell’eguaglianza sostanziale di cui al secondo comma dell’art. 3, il cui testo è il seguente: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Non pare proprio tuttavia, già in fase di impostazione programmatica e tanto più sulla base di un’analisi spassionata dei primi sette-otto mesi del suo lavoro che il governo Monti si sia ispirato a queste od analoghe finalità. Esso pare viceversa guidato dall’assioma, evidentemente condiviso dalla classe politica alla frutta di cui sopra, che il suo operato debba rispondere a non meglio precisate leggi supreme dell’economia. Fine della politica, fine della Costituzione. Ce lo chiede l’Europa (quale delle tante?), altrimenti faremo la fine della Grecia. Signore e signori, buonanotte.
Qualora poi i “tecnici”, che forse più adeguatamente dovremmo definire sacerdoti della religione appena accennata, si imbattano in altri tecnici, detentori anch’essi di un saper fare che però possa entrare in contraddizione con il dogma enunciato, la sorte di questi ultimi appare segnata. Prendiamo il caso dell’Isfol, istituto che “opera nel campo della formazione, del lavoro e delle politiche sociali, al fine di contribuire alla crescita dell’occupazione, al miglioramento delle risorse umane, all’inclusione sociale e allo sviluppo locale”. Quale mandato mai potrebbe, alla luce della situazione di grave crisi e necessitò di reorientamento delle politiche, dell’economia e della società che stiamo vivendo, risultare più necessario ed urgente?
Eppure, paradossalmente, quest’Istituto è oggi oggetto di un tentativo di liquidazione. Come hanno denunciato a chiare lettere i lavoratori dell’Isfol l’attacco al loro ente ente è parte di: “Un attacco che sta dentro il progetto di trasformazione che sta investendo molti Paesi europei, compreso il nostro, e che prevede un sostanziale ritiro dello Stato dai campi di intervento strategici per lo sviluppo del Paese.
…
La soppressione di Isfol, Cra, Inran e Inea non riguarda solo i lavoratori di quegli enti.
È un attacco ad un patrimonio inestimabile del Paese che si vuole dilapidare per lasciare praterie all’intervento dell’impresa privata che fa ricerca esclusivamente finalizzata al profitto e certamente non al benessere collettivo”.
In conclusione non solo i tecnici che stanno al governo pretendono di dettare essi stessi le finalità della politica, ma intendono anche liquidare tutti gli altri tecnici che in qualche modo si oppongano al loro disegno. Dalla desertificazione, in tal modo operata, delle capacità di ricerca e conoscenza del Paese, non possono derivare certo risultati positivi per il popolo italiano.