Il magistrato di Palermo in una intervista a "Libero" riflette: "Noi accertiamo i reati, la verità storica non tocca a noi... Come cittadino e come magistrato auspico che faccia gli accertamenti necessari senza scaricare tutto sui pubblici ministeri. Gli italiani hanno diritto alla verità giudiziaria, ma anche a quella storica"
La trattativa “è una semplificazione linguistica dei giornali. Nessuno è indagato per aver trattato con la mafia. Il reato che la Procura sta perseguendo è quello di violenza o minaccia nei confronti di un corpo politico amministrativo ai fini di condizionarne l’esercizio. Noi riteniamo che il cosiddetto papello e tutte le altre ambasciate per influenzare le decisioni del governo costituiscano un reato. Questo ovviamente per quanto riguarda i mafiosi. Se poi ci sono uomini dello Stato o delle istituzioni che hanno consapevolmente indotto i mafiosi a certe mosse o hanno intermediato le richieste, rispondono in concorso nella minaccia e per questo noi li abbiamo indagati”. E’ Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, a spiegare in una intervista a “Libero” perché pezzi delle istituzioni sono sotto inchiesta. Come Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, che ha cercato più volte l’appoggio e il sostegno del Quirinale. Come Giovanni Conso, ex ministro della Giustizia, che nel novembre 1993 non rinnovò oltre trecento provvedimenti di 41 bis dopo le stragi del ’92 e dopo le bomba dell’estate a Milano, Roma, Firenze.
“Non faccio nomi, ma la posizione dei minacciati è diversa. Sarebbe contraddittorio indagarli per concorso. Però potrebbe ricorrere un altro reato. E’ un po’ come un commerciante sottoposto a estorsione che nega all’autorità di aver pagato: in tal caso, anche se vittima, risponde di falsa testimonianza. Attenzione – argomenta il magistrato – Noi non entriamo nel merito della scelta di trattare e di cedere. Accettare le condizioni della mafia può essere una scelta politica discutibile, ma penalmente non punibile. Quindi noi perseguiamo chi ha preso questa decisione, ma chi l’ha imposta con le minacce”. All’obiezione dell’intervistatore, il direttore Maurizio Belpietro, che i mafiosi sono in galera, altri sono morti (per esempio l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ndr) Ingroia è categorico: “Se c’è un reato, la Procura ha l’obbligo di perseguirlo. Nella fattispecie si prescrive in trent’anni, ne mancano ancora una decina. A meno che non venga posto il segreto di Stato”. Sulla possibilità di una commissione di inchiesta parlamentare il pm ha una opinione netta ricordando che c’è già quella anti mafia guidata da dell’ex ministero dell’Interno Beppe Pisanu: “Noi accertiamo i reati, la verità storica non tocca a noi… Come cittadino e come magistrato auspico che faccia gli accertamenti necessari senza scaricare tutto sui pubblici ministeri. Gli italiani hanno diritto alla verità giudiziaria, ma anche a quella storica”.
Ingroia lamenta la “freddezza se non ostilità” con cui è stata accolta l’inchiesta, ma dice di aver apprezzato le parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, (più volte sollecitato da Mancino a intervenire con lettere e telefonate al suo consigliere Loris D’Ambrosio, ndr) “nel passaggio in cui ha ribadito la necessità di sostenere la magistratura nell’accertamento della verità. Il magistrato comprende lo “sconcerto” per il coinvolgimento di “persone come Conso”, ma chiede “un po’ di rispetto per il nostro lavoro. Rispetto e pazienza. Conoscendo meglio le risultanze processuali, certi giudizi potrebbero rivelarsi prematuri se non avventati”. Le carte alla base dell’inchiesta potranno essere lette dopo la richiesta di rinvio a giudizio, che probabilmente avverrà prima delle vacanze estive, in modo da che l’udienza preliminare possa iniziare in autunno. Dopo aver risposto a domande su Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri e le loro vicende processuali Ingroia spiega che “il rapporto organico tra pezzi della classe dirigente e le ‘elite’ è provato.. E quando la magistratura alza il tro e dai picciotti si passa a incriminare politici e imprenditori, si scatena la reazione. E’ successo con Falcone, è successo con Borsellino… Succede sempre. Ho letto che il ministro SEverino non è d’accordo con me. Tuttavia sulla trattativa Stato-mafia io ho percepito – non nelle istituzioni ma nel mondo politico – un clima non favorevole all’accertamento su quella stagione. L’italia purtroppo preferisce verità dimezzate. Non ha un buon rapporto con la verità. Non è una questione che riguarda singoli esponenti o settori politici, ma una questione più complessiva. C’è una sorta di ostilità nei confronti della verità che non invoglia a parlare. Non voglio apparire qualunquista, ma nel circuito politico, con le dovute eccezioni, prevale una certa allergia alla verità. Si lascia che la ragion di Stato prevalga sullo Stato di diritto”.
Al ragionamento sul fatto che i tempi – strage di Capaci e via D’Amelio introduzione 41 bis – non combacino l’aggiunto spiega: “Tutto inizia con l’assassinio di Salvo Lima. L’uccisione del parlamentare non è l’inizio della trattativa ma è un omicidio di rottura dei rapporti con la classe politica. L’aggiustamento del maxi processo era fallito e la mafia voleva dare una sanzione . Cosa nostra è già dell’idea di azzerare i rapporti politici che non funzionano più e ricostruire. Del resto c’era già stato un segnale, quando nel 1987 le cosche voltarono le spalle alla Dc dando indicazione di votare per il Psi, guardato con interesse anche per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati… Prima ci sono gli omicidi e la ricerca di un nuovo equilibrio. Un nuovo patto di convivenza tra mafia e politica. Ma non è Cosa Nostra che inizia a chiedere. Come Totò Riina parlando con i suoi, dopo le prime stragi è lo stato che si è fatto sotto e chiede ai boss cosa vogliono per smetterla”. E da questo “dialogo a distanza”, di questa “specie di compromesso” che “viene fuori il famoso papello … una verità giudiziaria acclamata per fonti orali”. E in questo contesto si inserisce anche una riflessione su Massimo Ciancimino, la sua collaborazione: “sapevano che era da prendere con le molle”. L’indagine è chiusa e a breve ci sarà la richiesta di rinvio a giudizio: “Premesso che non si fanno i processo con il ‘non poteva non sapere’, le poste in gioco erano così importanti che è difficile immaginare che alcune iniziative siano state prese senza avallo di qualcuno che stava in alto”.