Il primo luglio non è solo il 91esimo compleanno del Partito comunista cinese. Sono anche quindici anni che Hong Kong è “tornata” alla Repubblica popolare.
Il presidente Hu Jintao vi si reca proprio a celebrarne l’anniversario e Hong Kong mette in piazza tra i cinque e gli ottomila poliziotti. Si temono proteste, e non sarebbe la prima volta.
Anzi, in questo 2012, Hong Kong si è guadagnata le prime pagine dei giornali soprattutto a causa di un sempre più diffuso sentimento anticinese e della crescente corruzione dovuta in gran parte a una commistione tra mondo politico e affaristico, in genere più caratteristica del continente.
L’opinione pubblica ha trovato il pretesto per esplodere in una cinese che mangiava in metropolitana, contravvenendo così alle leggi cittadine. “Sono tanti, non rispettano le nostre leggi e si approfittano dei nostri servizi; sono come le cavallette” la lamentela più frequente.
E in meno di una settimana si era arrivati a raccogliere i soldi per acquistare un’intera pagina del quotidiano più diffuso della città in cui campeggiava una gigantesca cavalletta in marcia verso Hong Kong.
Il punto è che Hong Kong, dal 1997 ad oggi, è stata trattata come una nuova colonia. Le promesse fatte non sono state mantenute – prima fra tutte, quella del suffragio universale per l’elezione dell’interezza del Parlamento locale e del Capo dell’esecutivo, la più importante figura politica di Hong Kong — e Pechino affronta il malcontento solo in chiave economica.
Se a Hong Kong ci sono problemi, la ricetta è sempre la stessa: sviluppo economico, finanziario e turismo. E ancora una volta sarà quello che Hu Jintao offrirà domenica prossima.
Lo stesso giorno, entrerà ufficialmente in carica Leung Chun-ying, “l’amministratore delegato”, chief executive, che ha vinto le elezioni dello scorso marzo.
Uomo di Pechino, è arrivato al potere dopo una sporchissima campagna elettorale caratterizzata da colpi di scena, scandali, conflitti di interessi, amanti e – addirittura – figli illegittimi.
Ma soprattutto, quello che ha pesato agli hongkonghesi è l’assenza di un sistema democratico di selezione dei candidati.
A Hong Kong votano 1200 cittadini (circa lo 0,01 per cento della popolazione) gran parte dei quali pro-Pechino perché rappresentati di diversi settori importanti dell’economia, di distretti territoriali, di organizzazioni religiose oppure addirittura scelti direttamente del governo.
Come sintetizza magnificamente Ilaria Maria Sala, giornalista italiana che fa base nell’ex colonia britannica più o meno da quando Hong Kong è stata restituita alla Cina (1997), “Hong Kong non può accettare che essere cinese significhi essere pro-Partito Comunista”.
Nel 2017 l’ex colonia britannica potrebbe essere il primo esperimento cinese di suffragio universale per l’elezione diretta del governatore. Vale la pena di continuare a seguirla. E sapere cosa è successo negli ultimi 15 anni.