Nessuna attenuante è possibile, si legge nelle motivazioni della sentenza, per chi ha dimostrato solo "disprezzo della vita e dei più nobili sentimenti famigliari". La donna, testimone di giustizia, uccisa dalla mentalità mafiosa di chi non poteva sopportare "l'umiliazione" di essere stato lasciato
L’unica cosa certa è che Lea Garofalo è stata uccisa per “odio”. Massacrata da “criminali di mestiere e per scelta di vita”. Il suo corpo, dissolto in cinquanta litri di acido, non è mai stato trovato ma quella “donna fragile, sofferente, infelice” è morta assassinata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. I giudici della I corte d’Assise di Milano, che il 30 marzo scorso hanno mandato in galera per sempre sei uomini tra cui l’ex compagno della vittima Carlo Cosco, non hanno potuto concedere nessuna attenuante a chi, come scrive la presidente Anna Introni nelle motivazioni della sentenza, ha dimostrato solo “disprezzo della vita e dei più nobili sentimenti famigliari”.
E’ stato un processo difficile quello contro “imputati imperterriti e imperturbabili”, silenti tranne quando hanno scelto di parlare per dire “menzogne”. E’ più che un percorso giudiziario il film della vita di questa donna, che iniziò una collaborazione da testimone di giustizia solo per dare una chance di vita migliore alla figlia Denise, assomiglia a un romanzo. Una vita difficile ricostruita dai giudici con parole che entrano raramente in atti giudiziari: “Lea, orfana di padre dall’età di nove mesi, sin dalla prima infanzia respira e vive in un ambiente socio famigliare caratterizzato da povertà culturale, con elevati profili di illegalità patologici ed improntato a valori educativi deviati, la nonna le insegna che il sangue si lava con il sangue tanto da compiacersi dell’onore mostrato dall’altro suo figlio che aveva cercato di vendicare la morte del fratello con il sangue divenendo irrilevante che lo stesso fosse rimasto ucciso nell’ambito delle vendette incrociate”.
Ed è per questa vita complicata che il pm di Milano Maurizio Tatangelo, ad apertura del processo, disse: “A questo processo vi appassionerete, è una vicenda umana tragica”. Perché non solo c’è un uomo che uccide la’ex compagna con l’aiuto dei parenti, ma una figlia che si costituisce parte civile contro il padre, l’assassino di sua madre: “La testimonianza di Denise Cosco, come già visto e come si vedrà soprattutto in seguito, è assai preziosa, Denise è il teste chiave – scrive il giudice Introini – e le sue dichiarazioni si pongono quali momenti fondamentale per la ricostruzione di alcuni eventi, di parecchi episodi, di tutto quanto successo che ha visto protagonisti i suoi genitori. La sofferenza di Denise unitamente ad altri nobili sentimenti manifestati nel corso delle sue deposizioni, quali il coraggio, il senso della conoscenza, della verità esimono dal commentare le sue dichiarazioni se non nei limiti in cui ciò risulti strettamente necessario per l’accertamento della verità (finalità cui deve tendere il processo penale)”.
Per il pubblico ministero, che aveva chiesto e ha ottenuto l’ergastolo per gli imputati, “quella di Lea Garofalo è stata una morte annunciata, da anni”. Forse da quando la donna, nel 1996, dopo l’arresto di Carlo Cosco, lo lascia. Di sicuro dal 2002 quando Lea, sfuggendo alla “mentalità mafiosa” in cui era cresciuta, decide di svelare tutto quello che sa di omicidi ed estorsioni. Fino al 2009 Lea e Denise fanno parte di un programma di protezione e vagano per l’Italia in una sorta di via Crucis. Ma in aprile del 2009 Lea, che aveva solo 37 anni, smette i panni della testimone, forse perché sente il fiato sul collo di Cosco (che ha saputo dove si trova da un carabiniere), e dopo tredici anni cerca un contatto con lui. Cosco però, affiliato a una cosca della ’ndrangheta di Crotone “chiede l’autorizzazione a due capi-cosca per uccidere la Garofalo”, vuole la sua “vendetta”. Il movente di quest’uomo , cui non veniva fatta vedere la figlia quando era detenuto, è tutto in questa riflessione: non solo “lo straziante dolore di un genitore che a causa delle scelte dell’altro non vede più la figlia, non sono solo sentimenti di rabbia, di odio, di vendetta che provano quei genitori ai quali per le scelte dell’altro genitore vengono privati della quotidianità dei figli, vengono privati della gioia di vederli crescere, è qualcosa di più è il disonore, l’umiliazione provata per essere stato lasciato da Lea nel momento del suo arresto e per non vedere più la figlia per una decisione unilaterale della moglie”.
Tra gli “impeterriti e imperturbabili” imputati – Carlo Cosco appunto, i fratelli Giuseppe e Vito, Rosario Curcio, Massimo Sabatino – c’è anche Carmine Venturino “al servizio stabile dei Cosco” che “non si è sottratto neppure all’ignobile compito di affiancare Denise ed intrattenere con la stessa una relazione sentimentale”. La “rara efferatezza”, la “fredda determinazione” di tutti non hanno risparmiato Lea e forse non avrebbero risparmiato Denise che consapevole delle responsabilità della sua famiglia per oltre un anno, e fino agli arresti degli assassini, ha dovuto vivere in una prigione di silenzio e paura: “Ho fatto finta di niente – aveva detto in aula la ragazzina nascosta dietro un paravento – come ho fatto finta di niente tutto l’anno successivo. Cosa dovevo fare? La stessa fine di mia madre?”. Lea, che con la figlia voleva scappare in Australia, scomparve fra il 24 e 25 novembre 2009; le telecamere del comune di Milano ripresero all’Arco della Pace di Milano i suoi ultimi istanti in vita. Alle 18,37 salì sull’auto guidata da Carlo Cosco. Fu portata in un appartamento, poi in un magazzino, interrogata, torturata. Tra il 26 e il 28 novembre fu dissolta nell’acido. Denise, difesa dall’avvocato Enza Rando, ora vive sotto protezione, (lontana da nonna e zia materne, anch’esse parti civili nel processo), ma “orgogliosa testimone di giustizia”.