Qualcuno se lo sarà chiesto, armeggiando con le bacchette per afferrare una porzione di soba (spaghetti di grano saraceno) o un onigiri (involtini di riso e alghe): ma qual è il segreto del successo di questi sushi bar? Com’è possibile che un popolo come il nostro, così integralista ai fornelli, così orgoglioso – ebbene sì – di esser definito “mammone” quando si tratta di cucina, così legato alle sue tradizioni culinarie da esser definito all’estero “mangiaspaghetti”, si sia dolcemente arreso alla leggerezza eterea e all’estrema estraneità degli ingredienti che caratterizzano la cucina giapponese? A un qualcosa che – mon dieu! – può addirittura richiamare l’insopportabile altezzosità della nouvelle cousine dei nostri cugini transalpini?
Lasciate ogni kebab voi che entrate, perché in questo caso non c’è gara: nella ristorazione straniera sempre più presente nelle nostre città, il “giapponese” non ha rivali. Non si tratta solo dell’incremento di sushi bar che in città come Roma e Milano è impressionante. Il paradosso gastronomico è che a volte i ristoratori italiani che lasciano spazio agli egiziani dietro il forno a legna di una pizzeria sono gli stessi che adesso si dedicano all’analisi delle tecniche di taglio del sashimi. O ancor più spesso sono cinesi. Se poi possono vantare entrambe le provenienze, il senso della parola “fusion” applicato alla gastronomia è completo. Come nel caso di Claudio Liu, 30 anni, di origine cinese ma nato e cresciuto a Correggio, in Emilia, che oggi gestisce uno dei più noti ristoranti sushi di Milano: Iyo. Un ristorante che vanta uno staff multietnico, una grande cura per il design e l’attenzione alla scelta degli ingredienti. Un suo biglietto da visita? La selezione di gunkan (bignè sushi): bocconcini di riso avvolti da un carpaccio di pesce, sulla quale è adagiata una tartare, in una composizione di cinque pezzi da gustare in scala. Ma Claudio è un ristoratore sapiente, nonostante la giovane età, e svela qualche segreto della cucina del Sol Levante all’ombra del Bel Paese.
Quanti sono i sushi bar a Milano? E quanti di questi sono amministrati da giapponesi?
Oltre 300. E quelli amministrati da ristoratori giapponesi saranno meno di una trentina. Anche se sono stati certamente loro gli apripista a Milano, e quindi in Italia: penso all’Osaka, all’Endo, al Poporoya. Anche se la tendenza è esplosa quando è stato aperto l’Armani Nobu. Ma la cosa che più colpisce è l’incremento dei ristoranti giapponesi: basti pensare che dieci anni fa erano appena una trentina.
E se non sono giapponesi, da dove provengono i proprietari?
La grande maggioranza è cinese, direi un 70%, poi ci sono gli italiani – circa un 15% – e ora ne conosco alcuni che provengono dallo Sri-Lanka o dal Bangladesh.
Come ti spieghi il grande successo dei sushi bar in Italia, paese ostico per cultura all’adozione di cucine straniere in patria?
Il boom del giapponese non riguarda solo l’Italia ma è mondiale: i precursori sono stati Usa e Gran Bretagna. Perché? La cucina giapponese è nata con l’idea di proporre un menu genuino, sano e leggero: questa è stata forse la motivazione del suo successo.
Perché i cinesi? Si gioca sull’ignoranza media, per cui l’italiano confonde i lineamenti somatici?
Beh, devo ammettere che il fattore psicologico incide tanto. Gran parte degli utenti si fa influenzare dalla nazionalità del gestore: questo sicuramente ha un ruolo determinante. Per la mia esperienza personale, ci ho messo un po’ a convincere la clientela e abbiamo investito tanto in uno staff giapponese. Come il mio chef, Haruo Ichicawa.
Perchè sushi e non involtini primavera allora: si guadagna di più? Dì la verità…
Io lo faccio per passione, davvero, e i margini non sono così alti come si crede, il pesce crudo costa: direi che è per cavalcare la cresta dell’onda e riposizionarsi nel settore. Dopo l’epidemia della Sars, i ristoranti cinesi sono stati rasi al suolo, così moltissimi hanno chiuso e qualche altro si è convertito al giapponese: un motivo di necessità.
Cosa succederà ai sushi bar italiani nei prossimi anni?
Quello che sta già succedendo adesso, cioè che molti ristoranti giapponesi sono in crisi: a Milano forse sono troppi, altri fanno offerte stracciate alla clientela e ci rientrano appena. La cucina giapponese è la seconda più consumata a Milano ed è entrata nella routine: paradossalmente questo non è un bene perché ci vuole innovazione per sopravvivere e rilanciarsi.
Qualche stereotipo da sfatare…
La gente associa la ristorazione cinese a una gestione poco curata: in realtà, non bisogna far di tutta l’erba un fascio. Io sono attentissimo alla mia clientela e sono solo uno dei tanti: è un peccato, a volte, che si generalizzi e non si faccia attenzione agli elementi reali, senza pregiudizi culturali.
Hai qualche consiglio per riconoscere una buona portata giapponese?
La tecnica di taglio del sashimi: deve essere pulita e lineare. La cottura del riso non deve generare chicchi duri, che ad esempio diano fastidio ai denti. E poi in generale, non bisogna partire con idee precostituite: semplicemente, mangia e giudica.
di Gianluca Schinaia