Lo hanno scritto in molti. Ma guardare i miei figli afroitaliani gioire per il gol di Mario Balotelli e trovare conferme del proprio orizzonte esistenziale nell’abbraccio di Balotelli alla mamma di un colore diverso, è una di quelle cose che fa, e spero farà, la differenza.
La favola nuova che racconta di un’Italia diversa, inclusiva, festosa, colorata. Il passaggio simbolico che ti dice che non sei un caso unico, che altri hanno vissuto un’esperienza simile alla tua e che, pure in minoranza, sono apprezzati, acclamati, abbracciati.
I miei figli tirano calci alla palla e mimano Balotelli perché hanno lo stesso colore nella pelle e nella maglia. E pensano di essere campioni perché “sono marroni”. Il salone è un grande stadio e il divano la tribuna, dove corrono ad abbracciare la mamma dopo aver segnato un gol contro la porta (della cucina). Sono diventati campioni.
I simboli – anche quando lo diventano loro malgrado – servono anche a questo. A sconfiggere la solitudine. E poco importa se questo simbolo non passa dalla politica, ma dal calcio della nazionale, che, in Italia, è sempre stato ‘politica’, nel senso di manifestazione collettiva di appartenenza popolare e di cittadinanza.
Eppure i simboli – come gli eroi di Brecht – proprio perché nascono, rivelano al tempo stesso la triste condizione del paese che ne ha (ancora) bisogno. Il simbolo ci racconta una storia bella e tormentata che si chiude con un successo e che regala a tutti un sorriso.
Ma è facile diventare un simbolo, quando non costa nulla – agli altri – il riconoscerlo. Quando si diventa un campione che sta dalla nostra parte. Ma basta cambiare squadra e qualche genio italico innalzerà ancora una volta uno striscione con su scritto “non esitono negri italiani” o si eserciterà al tiro delle banane. Basta non segnare gol o non essere un campione per tornare ad essere altro. E basta avere un colore diverso per sentirti chiedere ‘da dove vieni?’, ‘parli italiano?’.
Sarebbe bello che, proprio ora che Balotelli è diventato un simbolo, smettessimo di averne bisogno. Che rispettassimo i tanti Balotelli che non segneranno mai, che non saranno mai i nostri campioni. Ma, più semplicemente, i nostri vicini di casa. Con i quali guardare insieme la partita. Ed esultare per un’altra vittoria.