Stasera vedrò la finale degli Europei, come quasi tutti gli italiani. E ovviamente tiferò per l’Italia. Ma mi sento scippato: senza che me ne accorgessi, negli anni sono stato un po’ derubato della mia identità nazionale. Non mi sento più italiano. Soprattutto non mi sento italiano in frangenti come questi. Mi accorgo dello scippo proprio quando dovrei avvertire meglio un senso di appartenenza. Perché l’appartenenza non è soltanto “l’attaccamento alla maglia”, come pessimamente si dice nel gergo dei commenti televisivi da bar sport. L’appartenenza è un sentimento di fratellanza, è l’essere parte di una communitas, riconoscere nell’altro se stessi e riconoscere gli altri in se stessi. Ora, è vero che la nazionale stessa registra nella sua composizione l’intreccio di etnie che connota la nostra società (e l’abbraccio tra Balotelli e la madre resterà un segno indelebile di questo passaggio epocale). Tuttavia, come diceva Giorgio Gaber, “io non mi sento italiano” perché mi pare che il grido “Italia Italia” ci sia davvero solo alle partite. Poi niente più.
Lo scippo del quale sono stato vittima – e come me, sospetto, milioni di miei fratelli – si è consumato lentamente. Ero cresciuto negli anni in cui l’appartenenza era un fatto sociale, il sentirsi parte di una rete era sperimentato tutti i giorni sulla pelle, nella carne del vissuto, nel sofferto formarsi di una coscienza politica, nel confronto continuo su alcuni snodi della morale che cambia, nell’intersezione tra politica e cultura, infine. In questo la mia generazione, quella dei cinquantenni di oggi, è cresciuta come parte di una comunità. E – ancora con Gaber – in questo la mia generazione ha perso.
Oggi non mi piace che la comunità come luogo di incontro reale sia avvertita quasi esclusivamente nei luoghi dello sport e sia fatta perlopiù di tic sociali, di riti obbligatori, del nostro essere consumati consumatori. Ha più senso la comunità virtuale della rete, che ci accompagna nella giornata attraverso tutte le forme di socializzazione isolata prodotte dal web.
Assistere alla partita non è un gesto festivo, tutto si è ferializzato nell’espansione onnivora del consumo di beni. Nel flusso di esperienze che è il nostro vivere quotidiano tutto c’è tutti i giorni, e non ha senso aspettare il rito di una partita che domani sarà sostituita da un’altra partita, e poi da quella dopo.
Se incappo in un noiosissimo commento televisivo a una partita mi soffermo e guardo con un po’ di tristezza quelle maschere che si fingono sportivamente onniscienti. Il consumo forzoso anche di calcio mi ha scippato del senso di comunità: dovrei guardare tutto, i campionati di serie A e B, poi quelli minori, quelli delle leghe estere, sapere tutto di tutti. In questo non c’è più comunità, appartenenza, incertezza, c’è solo un magma indistinto, in cui finirei per non sapere niente di nessuno.
E comunque stasera incrocio le dita…