La semifinale degli Europei, l’ho vista in piazza, a Ventotene, nel corso del festival letterario “Gita al Faro”, insieme agli scrittori ospiti, tutti sfegatati tifosi, e alle scrittrici, alcune tifose, altre tolleranti.

Eravamo nella piazza più bella dell’isola, sotto le frasche, davanti al megaschermo. Entrambe le imprese di Balotelli e anche tutte le azioni che avrebbero potuto trasformarsi in imprese, sono state salutate da grida gioiose, braccia alzate e poi salti, abbracci e baci di tutti con tutti, chi ti trovavi a fianco baciavi.

Bello, ho pensato, mantenendo una compostezza un po’ avvilita, e li ho invidiati. Tifare per l’Italia nonostante tutto. Perdonare calciopoli. Godere e basta. In una regressione felice alla pulita geometria del gioco. A fine partita è arrivata la banda in piazza, “Fratelli d’Italia” sembrava una mazurka, ma che allegria contagiosa! Mi sono riproposta di ricominciare a guardare partite, di concedermi anch’io un po’ di quell’orgoglio sportivo che attenua il disonore del debito, come dire: ci siamo lasciati governare male, siamo finiti fra gli europei a rischio, ma sappiamo giocare, e ce la faremo.

Poi, ho letto i titoli della stampa (di centrodestra, certo, ma nazionale): “Ciao ciao culona”. “VaffanMerkel”. Ho pensato: è troppo tardi. A giocare (e vincere), alcuni hanno disimparato. E riescono a inquinare tutto.

Il Fatto Quotidiano 1 Luglio 2012

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