Chiaro il parere del professore emerito di procedura penale alla Sapienza di Roma, nonché uno tra i più autorevoli processual-penalisti italiani: "Sulle intercettazioni il capo dello Stato ha fatto una gaffe"
L’interrogativo sollevato dalle indagini sulla trattativa Stato-mafia non sopporta ombre: tergiversare significa non rispondere a una domanda che riguarda sopra tutti e prima di tutto la salute della democrazia. Sul Fatto quotidiano del 24 giugno Paolo Flores d’Arcais chiedeva se le dichiarazioni del presidente della Repubblica sulla necessità di una legge in materia d’intercettazioni fossero davvero il male minore. E commentava: “Pesa fin qui il silenzio di giuristi e intellettuali da sempre impegnati a difesa della democrazia”. Cinque giorni dopo il torpore è stato rotto su Repubblica da Franco Cordero, tra i più autorevoli processual-penalisti italiani.
Professore, gran parte del suo articolo riguarda interventi regi in materia giudiziaria. Perché?
La storia aiuta a capire i termini delle questioni: i re erano condottieri, taumaturghi, custodi dell’ordine naturale, giudici par excellence; l’istituto s’evolve nel senso laico d’una divisione dei poteri; l’ultimo residuo mistico è l’idea d’una justice retenue in capo al monarca, liquidata dalla rivoluzione francese; e anacronisticamente riappare. Non è buon segno.
Qualcuno pensa che il capo dello Stato, in quanto presidente del Csm, sia primo giudice.
Se lo fosse, saremmo tornati ai bei tempi in cui Luigi IX, il santo, teneva udienza sotto un olmo. L’autogoverno della magistratura non tocca la fisiopatologia dei processi e relative terapie: lì vigono norme codificate; l’insegna della relativa disciplina è “procedura penale”.
S’è parlato anche di poteri del Colle in merito al coordinamento tra le procure.
Nella sintassi del diritto i poteri non germinano spontaneamente: esistono in quanto norme, costituite in un dato modo da certi organi, li attribuiscono alla tal persona; qui non ne vedo; e coniarle sarebbe un salto indietro.
Lei ha scritto: le conversazioni erano legittimamente intercettate.
Il giudice spiegava perché convenisse ascoltarle: niente da obiettare; e quando vi sia qualcosa d’eccepibile, non spetta al Quirinale rilevarlo, né rimediarvi.
Le intercettazioni indicano un atteggiamento “interventista” nel consigliere del Quirinale.
Dove il fine sia coordinare il lavoro delle procure, se ne occupa il procuratore nazionale antimafia: il quale, interpellato, risponde che tutto è avvenuto regolarmente; non c’era materia controvertibile. L’incongruo intervento, dunque, era gratuito.
S’è detto che il Capo dello Stato funga da cerniera tra le istituzioni.
Lasciamo da parte le metafore. Il quesito appartiene alla procedura penale, antica materia (l’ha fondata Alberto Gandino, magnus practicus, autore del ‘Tractatus de maleficiis’ nel tardo Duecento), ancora fragile ma non al punto che vi attecchisca lo stravagante: supponiamo che Sua Maestà, reputandosi organo censorio in materia giudiziaria, intimi al pubblico ministero Rosso d’astenersi dall’indagare trasmettendo gli atti a Verde; o esiga una richiesta d’archiviazione; o chieda conto al giudice del come mai non ritenga legittimo l’impedimento addotto dall’imputato; o interloquisca sulle prove o prescriva una lettura dei testi legali (mattane simili sfilano in un vecchio film girato da René Clair negli Usa, L’ultimo miliardario); l’unica risposta sarebbe una caritatevole fin de non recevoir, fingere che non sia avvenuto niente.
Se uno studente sostenesse quell’idea nell’esame di procedura penale?
Cantare i commi del codice è atletismo mnemonico: basta averne sotto mano un’edizione up to date; l’amnesia quindi merita indulgenza. Le storture sintattiche, no.
I pochi che hanno osato chiedere conto al Quirinale sono stati immediatamente tacciati di attentare alla democrazia.
Dev’essersi formata una retorica le cui battute escono automaticamente, cariche d’enfasi. Il ministro degli Interni denuncia l’aggressione al Capo dello Stato esortando gli italiani al massimo sdegno; e a proposito d’intercettazioni raccomanda ripensamenti seri ossia restrittivi. Altri vedono “schegge” togate cospiranti in difesa del “privilegio corporativo”, formula rumorosa priva d’ogni senso. Nel coro cantano a pieni polmoni plaudi-tori dell’uomo d’Arcore, in livrea o pseudo-equidistanti.
Anche il presidente Napolitano, chiamato in causa personalmente, nomina il bavaglio.
Tipica gaffe, sia detto rispettosamente, e rincresce notarla: sed magis amica veritas.
Sotto il governo Berlusconi parte della stampa protestava.
Ogni tanto scattano riflessi condizionati, inibitori e compulsivi; vi sono cose da non dire, “infandum”. Manierismi e stereotipi segnalano un calo della tensione critica, spiegabile dopo tanti anni d’asfissiante maleducazione verbale. Berlusco Magnus, uomo d’una suprema inettitudine al governo, a parte la scaltra gestione d’affari suoi, passa alla storia come formidabile guastatore dei meccanismi mentali collettivi: non s’è rassegnato alla caduta; padrone dell’ordigno mediatico, ha ancora delle chances in ambienti ridotti al panico dalla crisi, lui che se l’era covata e la negava. Recessioni intellettuali non costano meno dell’economica. Siamo al punto in cui quasi tutto diventa sostenibile, anche 2+2=5.
Il governatore della Lombardia da giorni nega d’essere sotto indagine perché la Procura non gli ha mandato avvisi di garanzia.
Quanto contorcibili siano gli argomenti legali, lo dicono famosi processi. Discorrere seriamente è un handicap sui palchi dove qualunque gesto verbale ha corso, specie se violento, convulso, deforme: platee scalmanate applaudono. Da notare come l’effetto distorsivo colpisca anche l’establishment culturale configurandosi come logofobia: chiamiamola paura del pensiero; qualche scuola lo vuole corto, saltuario, liquido; le catene ragionate costano fatica; “faticoso” è epiteto ricorrente nel lessico degli addetti alla censura.
L’urlo continuo manda in secondo piano cose importanti: qui dei magistrati indagano sulle stragi, una delle ferite più dolorose nella storia d’Italia.
Fosse vera l’ipotesi d’un patto tra istituzioni e la mafia, saremmo uno Stato dall’identità molto equivoca. Quando Moro stava in mano alle Brigate Rosse, nella cosiddetta prigione del popolo, che un ministero degli Interni inquinato da Gladio e P2 non riusciva a scovare, ed era condannato a morte se non fossero state accolte certe richieste, correva uno slogan: “Lo Stato non tratta con gli eversori terroristi”; costa poco declamare massime virtuose sulla pelle altrui. La premessa suona falsa, perché niente vietava il riscatto, giustificato dalla necessità di salvarlo “dal pericolo attuale d’un grave danno alla persona”, “da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile” (art. 54 Codice penale). Il caso attuale risulta alquanto diverso, supponendo negoziati al vertice: non eravamo ridotti al punto che la sopravvivenza dell’italicum genus dipenda da accordi con la mafia; né costituisce curiosità fatua sapere cosa avvenisse dietro le quinte; e spetta ai tribunali dire se l’accaduto sia delitto.
Tra poco sarà il 19 luglio, vent’anni dalla morte di Borsellino, e nelle cerimonie tutti chiederanno “tutta la verità”.
In Italia la politica è anche teatro, talvolta infimo, d’un vario genere, buffo, patetico, grottesco, feroce, gaglioffo, funereo (che spettacolo i visi alla messa funebre d’Aldo Moro), persino postribolare. Il senso dell’atto scenico va colto in particolari minimi, quali smorfie appena percettibili, tic, espressioni vacue. Speriamo che l’iter palermitano arrivi al dibattimento, se emergono prove tali che l’accusa sia sostenibile: affari simili è bene che diventino res iudicata; esiste una res iudicanda più seria del sapere in che Stato viviamo?
da Il Fatto Quotidiano del 3 luglio 2012