L’idea del limbo e la sua connaturata sospensione ad aeternum sono state eliminate dalla teologia cattolica nel 2007, da papa Benedetto XVI. Nel 2012 c’è chi, di quella condizione, fa esperienza quotidiana. Sono una cinquantina di giovani uomini “sospesi”, come loro stessi si definiscono. Hanno dai 18 ai 35 anni e sono i profughi arrivati in Romagna, a Faenza e Lugo, un anno fa, allo scatenarsi del conflitto libico.
Come vivono, che cosa fanno ogni giorno e qual è il loro attuale status sono in molti a ignorarlo. Il documentario “Nostra patria è il mondo intero”, che sarà presentato in anteprima nazionale giovedì 5 luglio alle 21 nel cortile del museo delle ceramiche di Faenza (all’interno del Festival WAM), ne racconta l’esperienza di vita, attraverso il coinvolgimento nel “Progetto rifugiati-Senza confini” del faentino teatro Due Mondi, un laboratorio interculturale per la costruzione di azioni teatrali di strada.
In Emilia Romagna i profughi della cosiddetta “Ena” Emergenza nord Africa sono 1640, di cui 1466 uomini e 176 donne. A Faenza 30 sono ospiti della Caritas, 18 invece risiedono a Villa San Martino (Lugo) in una struttura del Cefal, consorzio europeo per la formazione e l’addestramento dei lavoratori, accreditato con la Provincia di Ravenna e convenzionato con la protezione civile. Il gruppo di migranti di Lugo è arrivato a giugno 2011, quello di Faenza a settembre dello stesso anno.
Perlopiù i migranti provengono da Nigeria, Ghana e Mali. In comune hanno tutti la terribile esperienza del viaggio nel Sahara, attraverso il Niger e un inferno chiamato Dirkou, viaggio che Fabrizio Gatti, inviato dell’Espresso, ha raccontato magistralmente nel suo libro Bilal. I 48 profughi di Lugo e Faenza lavoravano in Libia e mai avevano pensato di avventurarsi su un barcone della morte per raggiungere le coste italiane. La guerra e il linciaggio dei neri operato dai libici li ha spinti per mare. Maltrattamenti, privazioni, sete, fame, poi Lampedusa. Quindici giorni dopo il trasferimento in Emilia Romagna.
Oggi chiedono asilo allo Stato italiano, nella speranza che venga concesso loro lo status di rifugiati. I 18 di Lugo hanno avuto tutti un colloquio con la commissione territoriale di Bologna: 9 sono in attesa di risposta, gli altri 9 hanno ricevuto un diniego (a uno è stata riconosciuta la protezione umanitaria). Coloro la cui domanda è stata respinta hanno presentato ricorso, assistiti da un avvocato del Cefal. Uno di loro, invece, un cittadino nigeriano, ha chiesto il rimpatrio assistito nello Stato di provenienza. Rita Pezzi, responsabile del centro lughese ha continuato a tenere i contatti con lui. L’uomo ha ritentato la carta della Libia, per lavoro, “ma la situazione è ancora instabile e non gli sta andando bene”, afferma con rammarico Pezzi.
È l’assessore regionale alla promozione delle politiche sociali e all’integrazione per l’immigrazione Teresa Marzocchi a spiegare perché tante richieste vengono respinte: “Il diniego è molto alto non perché le commissioni valutano in maniera restrittiva, ma perché si attengono alla norma: i profughi non vengono considerati rifugiati, perché vengono dalla Libia e non sono libici. Questo è il motivo per cui, in occasione della commissione delle Regioni a Roma, chiederò al Ministero degli Interni che si tenga in considerazione il fatto che i migranti vengono comunque da una condizione di guerra. Pertanto deve essere concesso loro un permesso di soggiorno per motivi umanitari”.
“Ora –prosegue l’assessore- la problematica giuridica è la più importante. Tutte le regioni e l’Anci, per la questione profughi, sono in regime di emergenza fino al 31 dicembre 2012. Dal 2013 sarà necessario poter contare su una differente condizione giuridica, per cercare di ottenere un’inclusione sociale e lavorativa per gli ospiti che sono ancora nelle nostre strutture”.
Quelle dei profughi arrivati in Romagna sono storie di vita e di dolore, di chi un lavoro lo sapeva fare e lo faceva: erano muratori, agricoltori, meccanici, saldatori, autisti, c’era persino un ingegnere venuto dall’Africa subsahariana a prestare la sua opera al servizio della Libia di Gheddafi. Non che fossero ben voluti in Libia, in quanto neri, ma lavoravano e mandavano denaro a casa. Poi le primavere arabe hanno rimesso in gioco tutto, costringendoli a un viaggio inatteso oltremare.
“I profughi possono lavorare –garantisce Rita Pezzi- perché hanno permessi di soggiorno dai 3 ai 6 mesi”. Sette infatti hanno una piccola occupazione come giardinieri, braccianti agricoli o operai in catena di montaggio e sono pagati una cifra che lei non esita a definire “un contributo”, tre invece sono impegnati in tirocini e borse lavoro.
“Aldilà del difficile momento per l’economia –continua Pezzi- i datori di lavoro sono scoraggiati ad assumere i profughi perché non sanno che contratto fare loro. L’apprendistato sarebbe compatibile con la condizione nella quale si trovano, ma dura 5 anni, un tempo davvero lungo per chi vive una tale precarietà. Per quegli uomini le difficoltà sono innumerevoli, tant’è che nell’intervallo tra un permesso di soggiorno e l’altro anche la tessera sanitaria deve essere rinnovata e in quel periodo manca loro una copertura. È tutto molto precario –conclude. In questo stato di congelamento c’è tensione e nessuna progettualità è possibile”.
E allora che futuro spetta a Collins, Patrick, Tony e agli altri compagni di viaggio? Attraverso il progetto del Teatro Due Mondi, realizzato assieme a italiani di diversa estrazione (operai e studenti, giovani e meno giovani, attori professionisti e semplici appassionati) possono tentare di superare le differenze e le diffidenze culturali e linguistiche, avendo l’opportunità di rielaborare le loro storie, raccontandole.
Il documentario “Nostra patria è il mondo intero”, realizzato da Lisa Tormena e Matteo Lolletti, della cooperativa Sunset di Forlì (già noti per avere affrontato in “Licenziata” la vertenza Omsa), corre parallelo al progetto teatrale, narrandone gli sviluppi, attraverso le parole dei migranti, i loro ricordi e il loro quotidiano.
E di cosa è fatta la quotidianità di queste persone nella provincia romagnola? Il limbo nel quale sono costretti l’hanno dovuto organizzare per non arrendersi alla depressione. Chi non lavora fa ricerca attiva, chiede porta a porta se c’è bisogno di una mano. Nei giorni delle grandi nevicate di quest’inverno, i profughi hanno spalato la neve gratuitamente per il Comune. “E poi certo, come tutti -racconta Rita Pezzi- ogni tanto si svagano: giocano a calcio, cantano, ballano e cucinano i loro piatti tradizionali per gli italiani”.
“La risposta del territorio è faticosa” ammette poi, ma nonostante i giovani africani siano di poche parole e non parlino troppo volentieri della loro vicenda, “perché un rifugiato politico non si fa pubblicità”, sono riusciti a farsi ben volere da una parte della comunità locale che li ha accolti creando occasioni di incontro e sfidando indifferenza, pregiudizi e paura.