Le calorie, contrariamente a quanto affermano alcuni nutrizionisti, non sono state “create” tutte uguali. Lo dimostra uno studio pubblicato sul Journal of American Medical Association, che esamina gli effetti di diversi regimi alimentari sulla perdita di peso e la salute
Riuscire a perdere peso, con una dieta, ma solo per alcuni mesi. È quello che accade a molte persone. Abbiamo infatti difficoltà a mantenere tale perdita nell’arco del tempo. Solo 1 su 6 adulti, sovrappeso od obesi, riesce a mantenere almeno il 10% della perdita del peso per un anno. Questo il dato, inquietante, riportato dal National Health and Nutrition Examination Survey (1999-2006), ossia un programma di ricerca, promosso dal governo degli Stati Uniti, per sondare lo stato di salute e nutrizione della popolazione americana.
Il tipo di dieta può dunque essere determinante non solo per la salute e la prevenzione alimentare delle malattie cronico-degenerative, come abbiamo già scritto (ad esempio qui o qui), ma anche per la perdita di peso e per il mantenimento di esso: così dimostra un recente studio, pubblicato sul Journal of American Medical Association, e condotto da Cara Ebbeling e David Ludwing del New Balance Foundation Obesity Prevention Center al Boston Children’s Hospital, ossia il più grande polo di ricerca fondato su un centro pediatrico che è affiliato alla Harward Medical School.
Nello studio si è visto come, per il mantenimento del peso a lungo termine, una dieta a basso indice glicemico o una dieta povera di carboidrati siano preferibili a una dieta a basso contenuto di grassi. Ma la dieta a basso indice glicemico (cioè la dieta mediterranea che l’Italia ignora) è da preferire a quella povera di carboidrati, in quanto non causa infiammazioni o stress.
La dieta povera di grassi è stata basata su cereali integrali, frutta e verdura. Col 60% delle calorie giornaliere provenienti da carboidrati, il 20% dai grassi e l’altro 20% dalle proteine.
La dieta a basso indice glicemico è stata basata su cereali minimamente raffinati, verdure, grassi (specie insaturi, contenuti ad esempio nel pesce o nell’olio di oliva o nelle noci), legumi e frutta. Col 40% delle calorie giornaliere provenienti dai carboidrati, il 40% dai grassi insaturi e il 20% dalle proteine.
La dieta povera di carboidrati è stata basata sulla famigerata dieta Atkin (che ultimamente è stata riciclata da Dukan). Col 10% delle calorie giornaliere provenienti da carboidrati, il 60% dai grassi e il 30% dalle proteine.
Insomma lo studio è uno dei primi a mostrare come, per mantenere il peso, sia più importante ridurre ad esempio i carboidrati raffinati che ridurre tutti i grassi indistintamente.
“Abbiamo scoperto che” afferma David Ludwing “adottando una dieta povera di grassi, rispetto a una dieta povera di carboidrati, si bruciano 300 calorie in meno. Il che corrisponde a quanto si consuma in un’oretta di media attività fisica”.
Lo studio è stato portato a compimento su 21 adulti (dai 18 ai 40 anni), che prima hanno dovuto ridurre il peso corporeo del 10-15%, e poi dopo la stabilizzazione del peso, hanno adottato tutte e tre le diete in ordine casuale: ciascuna per 4 settimane. E i risultati sono apparsi evidenti, per quanto l’ordine di successione delle diete variasse da persona a persona.
La dieta povera di carboidrati ha avuto i risultati metabolici più impressionanti ma aumentando i rischi di stress, insulino-resistenza e malattie cardiovascolari. Ma anche adiposità.
La dieta povera di grassi, raccomandata ad esempio dal governo degli Stati Uniti, oltre a far bruciare meno calorie delle altre, e dunque a non far mantenere il peso, è risultata la meno favorevole per i livelli di colesterolo HDL e trigliceridi.
La dieta a basso indice glicemico è risultata la migliore anche perché, sottolinea Ludwig, “è la più facile da praticare a lungo termine. In quanto non elimina intere classi di cibi, ma mantiene una varietà di alimenti”.
In conclusione, una caloria non è affatto solo una caloria, e una dieta non vale l’altra per contrastare la “diabesity”. Abbiamo bisogno di una corretta informazione, non è un caso che in America si stia riducendo il consumo di carne, mentre in Italia si sta per smantellare ciecamente l’INRAN, cioè l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione. Camminiamo all’indietro.