Credo nella dimensione terapeutica della cultura, nel senso che conoscere e studiare mette a disposizione strumenti per poter riflettere – sulle proprie aspettative, assunzioni, sui propri scopi e se stiamo comportandoci in modo da poterli raggiungere, e magari senza danno per gli altri.

Pensare e riflettere non sono un lusso, ma lo sviluppo di umane potenzialità.

Il comunicare fra persone, tuttavia, non è indipendente dal contesto:ad esempio ad una festa di compleanno il contesto ci fa assegnare altri significati, alle parole di chi ci parla, rispetto a quando siamo in ufficio.

Il contesto di un blog su un quotidiano come “ilfattoquotidiano.it” è ben diverso, mi accorgo, da quello di un blog riservato a chi condivida con me l’interesse per la comunicazione consapevole e sistemico-costruttiva, come i miei studenti ed ex-studenti o persone che leggono chi si dedica alla comunicazione non-violenta, come Marshall Rosenberg, o la rivista “Riflessioni Sistemiche” o i libri miei e di molti altri.

Per cui il mio credere nella potenzialità del riflettere insieme si scontra di fronte a commenti di chi vive in un’altra dimensione – un esempio fra tanti: “e c’è chi si può permettere di andare a Vienna”. Suggerendo che ci si dovrebbe sentire in colpa, a scegliere un treno della notte con tariffa speciale, magari invece di fare altre spese? Dovrei giustificarmi e dicendo che altrimenti non vado in vacanza mai? Mah!

La negatività tuttavia non la voglio semplicemente ignorare: la prendo sul serio sulla base del rispetto per le persone, ed è una forma di cultura, nel senso antropologico di cultura, di ambiente caratterizzato da credenze condivise tra chi le condivide, appunto. Anche all’interno della medesima lingua italiana vi sono molti “mondi” diversi.

Assumo che dietro a simili commenti che mi colpiscono ci siano problemi che mi sforzo di comprendere, per cui ci penso e ripenso, e mi viene il dubbio che chi li esprime abbia ragione, e non solo dal suo punto di vista, come tutti, ma in assoluto. Per cui mi dico “forse sono davvero troppo scema, e la prova sta proprio nel non accorgermene!” Per fortuna poi i miei studenti (e alcuni colleghi) mi rincuorano: se siamo scemi siamo in fondo in buona e numerosa compagnia.

Mi accorgo insomma che frequentare un mondo così diverso da quello in cui le mie assunzioni costruttive valgono mi toglie molta energia – e non ne ho così tanta, alla mia età. Non solo: la consumo senza raggiungere alcun beneficio, per nessuno, dato che chi svaluta simili approcci non è raggiungibile da chi li propone. E la responsabilità di frequentare posti adatti a mantenere il mio equibrio immunitario, e cioè il mio buonumore, è solo mia.

Ecco che il mio tentativo di comunicare assume le caratteristiche della comunicazione interculturale: come condividere significati, e cioè capirci, se le assunzioni degli interlocutori sono diametralmente opposte alle proprie?

Infatti non voglio imporre a nessuno il mio costruttivismo sistemico, che, per chi non lo condivide, non solo non esiste, (come la potenzialità non esiste per chi non ci crede) ma sembra semmai segno di ingenuità, o di stupidità, o addirittura, per chi è malevolo, di volontà di imbrogliare il prossimo.

Seminari come i miei non sono obbligatori, implicando la scelta di modalità comunicative più pacifiche, scelta che nessuno può fare per gli altri: chi vuole appropriarsi di strumenti sistemici per gestire il difficoltoso processo della comunicazione interpersonale, può farlo, ma non è possibile „passarli“, magari in forma di assiomi e nozioni, a chi non le prende sul serio.

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