Nelle motivazioni della sentenza che assolve il politic, i giudici definiscono i pm Di Matteo e Del Bene "in dissonanza con la legalità". Per "gli stessi fatti" l'ex presidente sella Sicilia è già in carcere, condannato per favoreggiamento
La Corte d’appello di Palermo contro la Procura sul caso Cuffaro. Sono severe le motivazioni della sentenza con la quale la Corte ha confermato l’assoluzione dell’ex presidente della Regione Totò Cuffaro dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il gup Vittorio Anania aveva sancito il proscioglimento basandosi sul principio che nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso reato (“ne bis in idem”), visto che il politico dell’Udc e poi del Pid sta scontando una pena a 7 anni per favoreggiamento con l’aggravante mafiosa.
Secondo i giudici di secondo grado – presidente Biagio Insacco, a latere Roberto Murgia e Roberto Binenti – la decisione della Procura di Palermo di riproporre nei confronti di Totò Cuffaro l’accusa di concorso in associazione mafiosa, mentre l’ex presidente della Regione Sicilia era già a giudizio per favoreggiamento per gli stessi fatti, “si pone in aperta dissonanza rispetto alle regole di legalità, ordine ed economia del procedimento, che non possono prescindere dalla salvaguardia dei criteri di razionalità, certezza, immediatezza e concentrazione del giudizio e della relativa decisione”.
La scelta dei pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, si legge ancora nelle motivazioni, “non risponde a una strategia accusatoria meritevole di considerazione, né ancor prima all’interesse pubblico, perseguito attraverso le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”. Si è trattato di una “soluzione di compromesso” trovata dal capo della Direzione distrettuale antimafia, Francesco Messineo, di fronte alle divisioni interne al suo ufficio sulla linea processuale da seguire.
Al di là del principio de ne bis in idem, nelle motivazioni i giudici escludono che Cuffaro sia colpevole di concorso esterno: “Le parti e i giudici, nei vari gradi del processo, hanno scandagliato tutti i fatti rappresentati”, dunque l’estraneità dell’imputato all’accusa più grave era evidente. Il procuratore generale Luigi Patronaggio potrà fare ricorso in Cassazione.