Un punto accomuna i programmi di diversi schieramenti politici: la ricerca delle “risorse” per la crescita. La versione operativa del programma, per esempio nel decreto sviluppo, consiste nel recupero di fondi per finanziare questo o quel progetto di “sviluppo” (grandi opere, reti digitali, assunzioni di laureati qualificati), ovvero (modeste) riduzioni di imposta. Spiego perché questa politica non cambierà le prospettive di sviluppo del paese.
Due fattori causano crescita: l’accumulazione di fattori produttivi, come capitale fisico e umano, ed il “progresso tecnologico” (inteso come istituzioni e conoscenze migliori che, a parità di ingredienti, portino ad una resa finale maggiore). Nelle economie sviluppate, a differenza di quelle in via di industrializzazione, gran parte della crescita viene dalla spostamento della frontiera produttiva (miglioramenti “tecnologici”). Ricercare la crescita in selettivi aggiustamenti di bilancio a cura di qualche ministero difficilmente cambierà le prospettive del paese. A questo proposito voglio riportare tre esempi e due analisi sui freni allo sviluppo e all’innovazione in Italia.
Una Biotech di recente creazione ha bisogno di permessi ministeriali per produrre, data la natura potenzialmente rischiosa della propria attività. Siccome esporta negli Usa, servono anche le autorizzazioni del National Institute of Health. Fatta la domanda, le autorizzazioni Usa sono arrivate in fretta: una persona è venuta, ha visto i laboratori, e ha rilasciato un permesso. Con il ministero italiano è in corso da circa due anni una lunghissima trafila che sostanzialmente impedisce all’azienda di produrre. I permessi italiani non arrivano e quindi la direzione dell’azienda sta valutando se trasferire il tutto in un altro paese europeo.
Un giovane chirurgo specializzato in California in operazioni di riduzione dello stomaco, tornato in Italia 8 anni fa come aiuto primario, ha pazientemente aspettato che venisse il suo turno per la promozione. Per 7 anni il primario in carica gli ha impedito di applicare la propria conoscenza specialistica in sala operatoria per timore di essere messo in ombra. Circa un anno fa il nostro giovane chirurgo ha fatto i bagagli e si è spostato in un paese Anglosassone dove lo hanno chiamato proprio per esercitare la sua specialità.
Un piccolo imprenditore aveva comprato un terreno con l’idea di farci un agriturismo di lusso. I permessi non arrivavano mai. Dopo vari tentativi ha venduto il terreno a una persona amica di un amministratore locale che nel giro di un anno ha realizzato il progetto.
Gli esempi illustrano alcuni degli ostacoli alla crescita in Italia: l’iniziativa imprenditoriale è frenata dalla macchina burocratica, l’eccellenza professionale nelle aziende pubbliche non viene riconosciuta, la capillare interferenza amministrativa con l’attività imprenditoriale crea rendite per la politica. Un’interessante analisi di Cingano e Pinotti (disponibile qui e riassunta qui ) mostra che un’impresa industriale che diviene connessa con il potere politico locale (condizione verificata quando un dipendente dell’impresa viene eletto presso una giunta di maggioranza nella amministrazione locale) aumenta i propri profitti e i propri ricavi del 5% in media. In sintesi: la connessione politica paga, consentendo all’azienda di accedere a un trasferimento (per mezzo della domanda pubblica) a scapito di altre aziende che potrebbero fornire lo stesso servizio meglio e/o a minor costo.
Un altro studio, da me curato insieme a Fabiano Schivardi (disponibile qui e riassunto qui), utilizza lo stesso campione di imprese e mostra come imprese a controllo familiare o pubblico, identiche in ogni caratteristica osservabile nel campione (settore industriale, posizione geografica, dimensione d’ impresa, etc.,) registrano una produttività di circa il 10% inferiore a quella delle imprese con controllo da parte di holding o estero. L’analisi avvalora l’ipotesi che queste imprese pratichino una selezione non meritocratica dei dirigenti aziendali: il politico utilizza l’azienda per costruire consenso elettorale, le famiglie per fare spazio a figli e amici, a discapito della creazione di valore.
E’ una ovvietà che per crescere si debbano risvegliare le risorse creative del paese: la voglia di fare di individui e imprenditori. Ma affinché queste potenzialità si trasformino in fatti occorre un sistema di istituzioni e regole che indirizzi i talenti verso finalità produttive. Altrimenti al capace (potenziale) imprenditore conviene diventare faccendiere, ai professionisti di talento emigrare.
Si sta facendo qualcosa in Italia per risvegliare queste risorse dormienti? Il controllo delle banche è nelle mani delle Fondazioni, al servizio di interessi locali e di politici che hanno dimostrato di dare poco peso al merito e alla produttività. In un paese in cui nessun governo è mai riuscito nemmeno a scalfire il potere della lobby dei tassisti, possiamo aspettarci riforme strutturali su fondazioni bancarie, aziende municipalizzate e grandi gruppi pubblici?
Francesco Lippi, professore straordinario di Economia Politica presso l’Università di Sassari. Fellow del CEPR e dell’Ente Einaudi, ha lavorato al Servizio Studi della Banca d’Italia dal 1996 al 2006, dove è stato responsabile dell’ufficio Analisi monetaria presso il Servizio Studi. Ha pubblicato studi sulle banche centrali, la politica monetaria e l’inflazione su numerose riviste scientifiche internazionali.