Un paese con tradizioni culinarie di altissimo livello, ma continuamente scosso da scandali alimentari: latte alla melanina, olio di scolo, ravioli al cartone, solo per citare quelli che si sono guadagnati le prime pagine.
Così, con un colpo da maestro, la televisione di stato cinese Cctv1, lancia un programma – A Bite of China – che diventa subito un caso. Ben pensato, girato e montato è un documentario promuove il cibo come patrimonio culturale e raggiunge alla settima puntata oltre cento milioni di ascoltatori.
Descrive, tra gli altri, i produttori di prosciutto dello Yunnan, le decine di qualità regionali di tofu, pasta, spaghetti, pane, riso, la salsa di gamberi fermentati tipica di Hong Kong. Un successo, da subito.
Commenti entusiasti sui social network, possibilità di vendere il documentario all’estero. Un libro con immagini a colori che sarà presto tradotto e -soprattutto- un’impennata delle vendite dei prodotti che celebra.
Taobao, l‘ebay cinese, ha registrato oltre cinque milioni di utenti che hanno cercato e comprato i cibi descritti in tv. Un esempio? Il prosciutto dello Yunnan ha incrementato le vendite dell’80 per cento.
Ovviamente non sono mancate le critiche: così si porta il nazionalismo sulla tavola, è un “documentario di propaganda”, è un modo per distrarre l’attenzione dei cittadini dagli scandali alimentari e fargli credere di vivere in un mondo meraviglioso che non esiste…
Perfetto, tutto vero. Ma in un paese dove in genere la propaganda celebra esclusivamente gesta e valori legati al Partito comunista, non mi pare questo il punto della vicenda.
Se c’è una cosa che le China Town e le Little Italy sparse per il mondo hanno in comune è proprio il non riuscire ad abbandonare la propria cucina.
E risollevare le sorti dei prodotti locali e delle cucine tradizionali attraverso un’operazione di marketing ben riuscita, in fondo, non mi pare una cattiva idea.
Chissà che a qualcuno non venga in mente di importarla.