“Tutto questo succedeva al Giambellino, dove ho trovato l’humus ideale per crescere bene!”. Lasciamo per un attimo in sospeso chi sia l’autore di questa frase. E concentriamoci sul suo contenuto, che nasconde una grande verità. Nel Giambellino, storico quartiere della periferia ovest di Milano, si può anche crescere bene. E non perché, a differenza di altre parti della città, “al Giambella non ci sono gaggi”, ossia i milanesissimi nerd. Ma perché la sua incredibile stratificazione sociale e urbanistica, nonché la sua storia, nel tempo ne hanno fatto uno straordinario esempio per capire l’Italia e le sue trasformazioni.
Perché cos’era questo “tutto” che succedeva al Giambellino? Per saperlo Immaginariesplorazioni, un collettivo di ricerca interdisciplinare sulle metropoli contemporanee, ha condotto uno studio sul territorio durato più di un anno. Ne sono scaturiti un film, Entroterra Giambellino (Lab 80 Film), e un libro, Nella tana del Drago, anomalie narrative dal Giambellino (Agenzia X). All’interno una serie di testimonianze dal quartiere: l’abitante storica, i militanti politici di un tempo, il gangster passato alla leggenda, il gestore di call center per immigrati, la donna rom che vive sulle panchine, gli insegnanti della scuola per stranieri, l’abitante del palazziun di via Gonin, il docente di geografia umana, l’operatore sociale, il graffitaro. Insomma, uno spaccato spaziotemporale delle varie realtà di un quartiere unico. Ma anche di chi lo studia e di chi se ne occupa.
Non c’è ovviamente il drago del titolo, il quale, va da sé, è il Cerutti Gino di Giorgio Gaber, che gli amici al bar del Giambellino chiamavan drago. Però c’è un buon campionario di ciò che il quartiere ha rappresentato da quando esiste. Nel bene e nel male, con occhio antropologico e senza omissioni. Dalla sua nascita, avvenuta intorno alle cascine a inizio secolo, fino all’espansione urbanistica dell’era delle fabbriche; dagli emigranti italiani di ritorno dalla Francia pugnalata alle spalle (e alloggiati dal Duce nel quartiere), fino ai moti della Resistenza; dalle collaborazioniste del fascismo rasate per vendetta in piazza Tirana (le ciocche di capelli riemergeranno con i lavori per il tram), fino al dopoguerra vissuto con fantasiosa povertà; dalla ligera, la piccola malavita d’antan, fino al gangsterismo, quando in piazza Tirana si giocava a dadi sotto l’egida di Francis Turatello.
Finché il modello industriale che l’aveva edificato non si inceppa. Allora sì che il Giambellino diventa “una bolgia di quartiere”, come aveva scritto Luciano Bianciardi ne la Vita Agra. Ma anche un laboratorio capace, come già in passato, di “trasformare i disagi collegati allo sviluppo in nuove pratiche di coesione sociale”. Innanzitutto grazie al gruppo Luglio 60, che per primo fa una scissione maoista all’interno del Pci, venendo per questo espulso. Poi con le varie realtà cattoliche e l’esperienza del centro culturale Crud (Centro rionale di unità democratica), alla cui inaugurazione presenziano Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Quindi con la scuola sperimentale Rinascita, antesignana nel suo genere, al cui interno si trovava l’Istituto pedagogico della Resistenza. Fino alle Brigate Rosse, le cui prime riunioni tra la famiglia Morlacchi, Renato Curcio e Mara Cagol, avvenivano alla trattoria Bersagliera (sempre in piazza Tirana), oppure nella piccola biblioteca di via Odazio. Prima, molto prima che le P38 cominciassero a sparare.
E poi quella stessa via Odazio che diventa la più grande piazza di spaccio d’Europa, rifornita dalle famiglie mafiose di Trezzano sul Naviglio e controllata dalla malavita vicina ai neofascisti. Una sfilata di centinaia e centinaia di tossici, il quartiere coperto di siringhe, l’80% dei giovani sieropositivi, un’ecatombe. E l’immigrazione continua: i terroni, gli extracomunitari, gli zingari. Con il razzismo che si mischia alla solidarietà e i vecchi immigrati che si trasformano nei nuovi intolleranti.
Eppure al Giambellino si vive tutti insieme, sebbene in modo gerarchico. Dal centro verso la periferia prima troviamo le case degli “sciuri” (costruttore e residente Silvio Berlusconi: l’avrete visto tutti votare nella scuola di via Scrosati, a pochi metri da via Odazio), poi quelle degli operai e del ceto medio, quindi le casette del Villaggio dei Fiori, dove un tempo c’era la malavita vera: infine le case minime per i vari desmentegass, i reietti di Milano. Feccia da spingere ai margini.
Sarà sempre così il Giambellino? Il suo declino è irreversibile oppure oggi è meglio di un tempo? E cosa sta facendo la prima giunta di sinistra della città? E quali sono le esigenze dei nuovi abitanti? Ne abbiamo parlato con Marco Philopat, etnografo e curatore del progetto, cui innanzitutto abbiamo chiesto come è venuta l’idea del libro e del film.
“Sono tornato a vivere nel Giambellino nel 2008, quando ho trovato casa in piazza Tirana. Da quel quartiere ero fuggito alla fine degli anni Settanta, perché non ci si poteva più stare. Ero andato a vivere a Baggio, poi a Londra (Philopat ha descritto l’esperienza punk del Virus di via Correggio e il periodo londinese in Costretti a sanguinare, Einaudi). Tornandoci anni dopo ho riscoperto il grande fascino del Giambellino. Il senso d’appartenenza di nuovi e vecchi abitanti. La sua vitalità. La sua storia. Poi, durante la curatela del libro di Manolo Morlacchi (La fuga in avanti, Agenzia X), che parlava molto del quartiere, mi sono detto: dovremmo scriverci un libro. Un mese dopo è arrivata la proposta da parte dell’associazione Dynamoscopio: il progetto immaginariesplorazioni, una ricerca collettiva su e nel Giambellino.»
Come è stato condotto lo studio?
“Il collettivo della Tana del drago è composto da una decina di giovani donne e uomini, alcuni abitanti nel quartiere, altri studenti o laureati in antropologia. Il metodo di ricerca usato, invece, è quello della raccolta di fonti orali, chiaramente di vecchi e nuovi abitanti del Giambellino. Insieme ai quali è stato poi svolto anche il lavoro di stesura narrativa.»
Qual è l’anomalia narrativa che colpisce di più
“Sono le anomalie del drago. Un quartiere che ha dentro il dna della ribellione. Dalle lotte dei cattolici a quelle operaie, i suoi abitanti hanno sempre venduto cara la propria pelle. È così anche adesso, se solo si pensa alle lotte contro il villaggio Vodafone. Oppure all’autogestione della case Aler di via Giambellino 146”
C’è però sempre una vena di follia nel quartiere
“Sì, e ancora oggi nella geografia del Terzo settore il quartiere è considerato un luogo di pazzi. Prendi però la Comunità del Giambellino. Ha coperto il buco provocato dall’eroina e la desertificazione che ne era derivata. E oggi si può permettere anche tematiche spesso radicali”.
Che cosa è stata l’eroina per il Giambellino
“Non dimentichiamoci che qui l’eroina ha falcidiato una generazione. Più che la lotta armata, ad ammazzare i giovani del Giambellino è stata lei. È stato l’unico momento in cui il quartiere non è stato in grado di reagire. Alcuni compagni hanno provato a dare fuoco al bar di via Odazio, ma erano azioni velleitarie. In pochi anni la maggior parte dei ragazzi o era morta, o era in galera, o stava riversa su una panchina”.
Un’altra anomalia del Giambellino è rappresentata dai vari linguaggi che negli anni si sono accavallati: il milanese dei vecchi del quartiere; il francese degli emigrati italiani di ritorno dalla Francia; il “terrunciello” (il mix di tutti i dialetti meridionali che fece la fortuna di un altro nativo del Giambellino: Diego Abatantuono); l’arabo, il sudamericano, il cinese e il romeno dei nuovi migranti; lo slang “strascicato” dell’ex tossico e quello triviale degli “zarri”, i coatti di Milano.
“Quella della lingua è una delle grandi risorse del quartiere. E non solo nel passato. Per esempio abbiamo scoperto che egiziani e marocchini hanno creato una linea di linguaggio base che esiste solo al Giambellino. Perché qui, al contrario di altre zone della città, non ci sono compartimenti stagni. Si vive tutti insieme. Certo, poi ogni comunità si ritrova in diverse parti del quartiere, chi in piazza Tirana, chi in via Odazio, chi in largo Fatima. E gli egiziani non vanno d’accordo con i marocchini come un tempo i pugliesi con i napoletani. Ma il fatto di abitare case in comune ha creato molti meno problemi che in via Padova. Là gli appartamenti sono di privati, e gli affittuari se le passano con il metodo del passaparola. Qui no. Non c’è il controllo della mafia nella case popolari”.
Il vento di Pisapia è arrivato anche al Giambellino?
“Pisapia è venuto più volte in quartiere, sia durante la campagna elettorale sia dopo. Ed è stato molto seguito dalla gente. Credo che dopo vent’anni di governo berlusconiano e leghista le acque si siano mosse e Milano stia vivendo una delle sue tante rinascite. Anche a partire dal Giambellino. Basta pensare alle venti associazioni che hanno partecipato alla realizzazione del libro e del film. Ma molte iniziative dal basso ci sono anche altrove. L’esperienza di Macao, per esempio, è la dimostrazione di una città che dopo vent’anni di repressione è capace di reagire”.
Torniamo alla frase con la quale abbiamo cominciato. Nel Giambellino si può trovare l’humus ideale per cresce bene, e tu ne sei un esempio. Ma non ti sei stupito che a dire quella frase fosse Renato Vallanzasca, il boss della Comasina?
“Certo mi ha fatto sorridere. Però lui aggiunge una cosa: “in Comasina erano tutti dei pirlotti e prendevano un sacco di mazzate da noi, però alla lunga sono saltati fuori molti più delinquenti là che non al Giambellino…” In ogni caso la sua testimonianza di quando da bambino viveva nel quartiere è davvero suggestiva. Racconta il gioco del carellòt, un monopattino costruito in proprio e molto pericoloso. E di quando vicino a via degli Apuli, dove abitava, ha trovato il fratello morto. Lo avevamo anche invitato alla presentazione del libro, in via Odazio. Ma non gli hanno dato il permesso di partecipare. C’erano troppi pregiudicati”.