La madre dei Caravaggio è sempre incinta. E se i poveri parti non meriterebbero nessuna attenzione, è invece la madre stessa ad indurre a qualche riflessione.
Due illustri sconosciuti agli studi caravaggeschi (e, più in generale, storico-artistici) che si chiamano Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli annunciano di aver ‘scoperto’ cento (siamo ai saldi estivi, cento al prezzo di uno: «venghino siore e siori!») autografi di Caravaggio nel Civico Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco a Milano.
Si tratta di un fondo ignoto agli studi? Manco per sogno: come hanno ricordato subito i funzionari del museo, esso è noto da sempre, ed è almeno dagli anni cinquanta che gli specialisti di Caravaggio lo frequentano e ne scrivono, interrogandosi su alcuni nessi con l’opera del grande naturalista. Nonostante i dispareri sulla paternità dei singoli fogli, si è concordi nel ritenere che i disegni vadano ricondotti alla bottega di Simone Peterzano (1540-1596), il pittore bergamasco con cui Caravaggio si formò a Milano. Ma ora i due novelli caravaggisti hanno una soluzione geniale, un vero uovo di colombo: quei nessi si spiegano perché i disegni son tutti autografi del giovane Caravaggio. Semplice no? E tanti saluti a quei babbioni degli studiosi che da decenni ci si stillano il cervello.
Le prove? Esilaranti fotomontaggi al photoshop che incollano particolari di disegni, palesemente di mani e di epoche diverse, su quadri di Caravaggio, con effetti tragicomici. Non si fa desiderare l’imperdibile perizia calligrafica che stabilisce che, sì, la scrittura di un biglietto annesso ai disegni è proprio quella di Caravaggio. Insomma, manca solo il Ris di Parma: ma quello ha già dato, avendo autenticato due anni fa le ossa del Merisi a Porto Ercole, nella madre di tutte le bufale caravaggesche.
Non ci sarebbe altro da aggiungere, se non fosse per l’inconcepibile eco mediatica che ogni volta esalta queste operazioni, con l’effetto di trasformare la storia dell’arte in un circo equestre. L’Ansa ha voluto la notizia in esclusiva, dedicandole non so più quanti lanci e parlando di «svolta storica per la storia dell’arte».
Ma nessuno all’Ansa, o per esempio a Repubblica (che ha dedicato alla vicenda una pagina francamente imbarazzante), si è posto il problema della credibilità della ricerca. In storia dell’arte, come in fisica, le ‘scoperte’ vengono proposte a riviste riconosciute dalla comunità scientifica, dotate di comitati e basate su un sistema di revisione preventiva che vaglia e seleziona in contributi: e la scientificità di una ricerca (concetto ben presente anche nelle scienze umanistiche) si basa in primo luogo sulla verificabilità delle affermazioni e sul controllo della comunità. Ora, possibile che nessun giornalista si sia chiesto perché una simile ‘scoperta’ non era uscita su nota e autorevole rivista, ma su due ebook di Amazon?
O è mai possibile che nessuno sia andato a vedere il sito ufficiale della ‘scoperta’?
Sopra un accompagnamento al piano elettronico degno di un thriller di quart’ordine, una voce da spot di tv locale legge un testo che inizia con queste memorabili parole: «È una autentica rivoluzione del Sistema Merisi, una delle maggiori e articolate scoperte nel campo della storia dell’arte e della cultura». La conclusione è un’apoteosi: «L’operazione Giovane Caravaggio … ha pure un grande valore economico e ricadute istituzionali di enorme valenza: si calcola infatti che solo il valore dei disegni, di proprietà del comune di Milano, possa ammontare a circa 700 milioni di euro». Davvero un geniale omaggio alla ‘valorizzazione del bene culturale’, con ammiccamento alla Giunta Pisapia: che grazie all’intelligenza di Stefano Boeri si è, tuttavia, prontamente smarcata da questo abbraccio mortale. Meno avvertito lo staff del ministro Lorenzo Ornaghi (quello che di solito fa come il Prodi di Guzzanti: sta fermo, non si muove), che si è precipitato a chiamare in Italia da Pechino (dove si trova per festeggiare, con un seguito assai nutrito, la deportazione dei nostri ‘capolavori’ del Rinascimento Fiorentino) per sapere se si poteva cavalcare la tigre caravaggesca, e, chissà, magari girare i 100 disegni da sette milioni l’uno al ministro Passera, per una bella messa all’incanto.
Nessuna redazione potrebbe prendere sul serio una fonte come il sito ‘giovanecaravaggio’, non dico per una notizia politica o economica, ma nemmeno per una di storia politica, per non dire di fisica. Se dichiaro di aver visto a occhio nudo il Bosone di Higgs nel mio salotto, mi portano giustamente alla Neuro: ma se il primo che passa sostiene di aver scoperto un Michelangelo, un Leonardo o un Caravaggio, il circo mediatico lo porta, immediatamente, in trionfo.
Quando si parla di storia dell’arte tutto è possibile: in Italia il giornalismo storico-artistico è pressoché defunto, ed è ormai talmente abituato a concepire se stesso come il megafono celebrativo dei Grandi Eventi da non essere più in grado di distinguere una notizia da una bufala. È questo uno dei sintomi più gravi della riduzione di una disciplina umanistica ad escort della vita pubblica italiana: da mezzo per alimentare e strutturare il senso critico, a strumento di ottundimento di massa. E assai prima dell’indegnità della classe politica o dell’insufficienza di fondi, tra le tante cause del disastro del nostro patrimonio storico e artistico c’è anche questa desolante mutazione della storia dell’arte.
Il Fatto Quotidiano, 7 Luglio 2012