Il rischio è la quintessenza dell’economia di mercato. Investimenti, lancio di nuove iniziative aziendali, espansione in mercati esteri, adozione di tecnologie avanzate, commercializzazione di scoperte scientifiche, sono attività rischiose. Per quanto si possa essere prudenti, capaci, lungimiranti, geniali è inevitabile che i rischi si materializzino. All’altare di ogni successo si ascende su gradini di tentativi a vuoto. Ciò non implica che l’economia di mercato sia destinata a fallire, ma che la gestione del rischio è uno dei suoi fondamenti.
Nell’economia di mercato il sistema finanziario svolge questa funzione cruciale: allocare il risparmio distribuendo i rischi in modo che eventi negativi non abbiano conseguenze esiziali per il tessuto economico. Un banchiere incompetente, avido, o al guinzaglio di politici (caratteristiche spesso inestricabilmente intrecciate) infligge danni infinitamente peggiori di qualsiasi orda bolscevica.
Il sistema finanziario a cavallo del secolo aveva imboccato una deriva pericolosa perché i modelli di gestione del rischio su cui facevano affidamento (per ignoranza o dolo) regolatori e managers erano intrinsecamente fallaci. Per di più i regolatori confondevano la stabilità macroeconomica del sistema finanziario con la stabilità microeconomica di ogni singola istituzione. Quindi hanno trascurato i rischi sistemici: se una banca va male è relativamente facile imporre agli azionisti l’aumento di capitale o, nei casi gravi, la liquidazione. Ma se tutte le banche vanno male a causa di una recessione o di uno shock imprevisto, gli azionisti non hanno soldi e non ci sono acquirenti per gli attivi messi in vendita. Pertanto il mercato cessa di funzionare e si innesca una spirale di crollo delle attività e panico, che le vigenti regole prudenziali (Basilea 2) non sono in grado di spezzare.
L’implosione causata dalla bancarotta della Lehman fu uno shock per la maggior parte dei risk managers (e dei regolatori), i quali erano convinti di aver adottato sofisticati modelli di gestione del rischio che avrebbero attivato i segnali di allarme con confortevole anticipo. Immaginavano che complesse soluzioni di equazioni fossero un’accurata descrizione della realtà, invece che complicati riti di scongiuro.
Come se non bastasse, l’evoluzione dei mercati finanziari aveva gonfiato lo shadow banking, un intreccio di transazioni comprendenti quelle relativamente semplici con i fondi monetari fino ai prodotti strutturati (famosi quelli costruiti sui mutui subprime) molto più opachi e illiquidi. In questo sistema bancario parallelo (ma di dimensioni simili a quello regolamentato) venivano compiute le operazioni (talora fuori bilancio) che permettevano agli intermediari finanziari di aumentare la leva finanziaria lontano dagli occhi delle autorità di vigilanza in una girandola fuori controllo.
Dopo i colossali salvataggi di stato del 2008-09, le solenni promesse di misure draconiane sono state dimenticate. Pochissimi hanno pagato per la loro incompetenza. Ancora oggi le autorità di vigilanza girano a vuoto, non hanno idea della situazione complessiva. Vanno in scena riti vacui come gli stress test per annunciare che tutto è in ordine, e dopo tre mesi l’intero sistema bancario irlandese si sconquassa.
La normalizzazione è lontana. Nel Global Financial Stability Report di aprile il Fmi ha pubblicato una tabella che riporta la leva bancaria (il rapporto tra capitale azionario e attivi tangibili in bilancio) nei maggiori paesi: mentre negli USA il rapporto è pari a 11, per Eurolandia è pari a 23. Il dato peggiore, 28, si riscontra in Germania (livelli da hedge fund) mentre la Francia registra un 24 e l’Italia 20. Non è un caso se in Eurolandia si sussegue lo sciame di fallimenti bancari. West LB in Germania è in ristrutturazione, Dexia in Belgio è saltata due volte, Bankia nata dalla fusione di casse locali gestite da preti e politici è crollata di schianto sotto il peso dei presti immobiliari rischiando di trascinare con sé tutta la Spagna. Anche in Italia il quadro e’ poco rassicurante tra Monte Paschi e BPM, feudi politico-sinddacali par excellence, passando per la Fonsai di quel Ligresti dai sempiterni rapporti ravvicinati coi potenti. E tutto ciò senza nemmeno entrare nel buco nero delle esposizioni ai titoli sovrani.
Segnali inquietanti anche fuori da Eurolandia: in UBS un trader ha causato nell’estate 2011 perdite per più di 2 milarid di dollari, circa la stessa cifra che JP Morgan ha dichiarato inizialmente di aver perso a maggio su derivati, poi lievitata a una stima di 9 miliardi. A ottobre 2011 era saltato MF Global un intermediario di futures su una scommessa di 6,3 miliardi di dollari (quattro volte il capitale) su titoli sovrani. A molti questi episodi fanno ipotizzare che ormai banche e fondi sono un tale coacervo di attività complesse e sconnesse che gli amministratori ne hanno perso il controllo.
Con la Barclays accusata di aver manipolato i dati sul Libor e forse anche sull’Euribor, vale a dire i pilastri dei tassi europei, non si tratta più di grave incompetenza, ma di associazione a delinquere. La litania delle mele marce, del trader fuori controllo non regge. La Barclays, sembra truffasse per aumentare i ricavi, visto che con i servizi di infima qualità forniti ai clienti mai avrebbe potuto macinare profitti. Difficile che le inchieste si fermino qui. Quando ci si abitua ai soldi facili il virus si diffonde prima all’interno dell’istituzione e poi contagia all’esterno. La truffa diventa stile di vita, diritto acquisito. Forse non tutti i mali vengono per nuocere: quando la cancrena minaccia di raggiungere organi vitali si chiama d’urgenza il cerusico, il quale talora nella fretta mette in borsa i ferri, ma dimentica l’anestetico.