Se le cose economicamente parlando dovessero volgere al peggio, esiste una terza via tra il “tassa-taglia-vendi” di Monti e la maxi patrimoniale della Camusso. Lo ha scritto persino il Financial Times che ha ripreso l’ipotesi di uno studio della Duke University: quella di intervenire sul nostro debito pubblico ristrutturandolo. Detta in modo semplice: pagare un po’ meno o un po’ più tardi quanto dovuto ai possessori di titoli di Stato, banche e fondi stranieri in primis, premurandosi magari di salvaguardare i piccoli risparmiatori. Una strada sicuramente impervia e rischiosa ma che in situazioni particolarmente difficili, potrebbe alla fine rivelarsi il male minore.
Con i mercati perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, parlare oggi di una ristrutturazione del terzo debito pubblico del mondo è come pronunciare la parola bomba su un aereo in fase di decollo. Eppure, magari sottovoce, il tema comincia a essere discusso e l’opportunità di metter mano al nostro debito pubblico è stata avanzata, seppur con diversi approcci, da economisti come Nouriel Roubini, Luigi Zingales e Giovanni Dosi. Recentemente l’argomento è stato trattato anche in uno studio condotto da professori e alunni della Duke University.
Il loro documento prende in esame la forma più soft di ristrutturazione, ossia il semplice allungamento delle scadenze dei titoli senza ulteriori penalizzazioni per i creditori. Il debito pubblico italiano ha già una scadenza media piuttosto lunga (circa 7 anni contro i 5,7 della Germania o i 5 degli USA) e in tempi normali, sostengono gli autori, l’Italia sarebbe tranquillamente in grado di sopportarne il peso per quanto ingente. Ma questi, aggiungono, non sono tempi normali. L’obiettivo è quello di guadagnare tempo permettendo alle riforme di produrre i loro effetti sulla crescita economica. Con lo spauracchio di una decisione unilaterale, i creditori andrebbero spinti ad aderire all’offerta. Un effetto intimidatorio reso più credibile dal fatto che l’Italia si trova oggi, cosa rara in Europa, in una condizione di avanzo primario. Vale a dire che le entrate fiscali coprono tutte le spese dello Stato, se da queste si escludono gli interessi da pagare sui titoli pubblici. Le nuove emissioni servono in pratica per la gestione del debito e non, ad esempio, per pagare pensioni o stipendi dei dipendenti pubblici.
Le caratteristiche del debito italiano, conclude lo studio, lo rendono particolarmente adatto a questo tipo di operazione. Nel 96% dei casi i titoli sono infatti regolati da leggi italiane e in caso di eventuali contenziosi (che sarebbero giudicati nei nostri tribunali) alcune clausole legislative renderebbero la posizione dello Stato italiano difficilmente attaccabile (in particolare art. 3, comma c, decreto 398 del 30 dicembre 2003). Alla fine gli effetti sarebbero sostenibili anche per il sistema bancario nazionale, nonostante la grande quantità di titoli in possesso dei nostri istituti.
Resta estremamente scettico Angelo Drusiani, responsabile investimenti di banca Albertini syz e grande esperto di mercati obbligazionari. “L’ ipotesi è suggestiva – spiega – ma i rischi sono troppo alti. Il problema non è tanto quello di eventuali dispute legali, quanto il fatto che nessuno presterebbe più soldi all’Italia nel momento in cui si presentasse di nuovo sui mercati”. I costi, insomma, supererebbero i benefici. Drusiani è anche convinto che in ogni caso l’attuale Governo non sceglierà mai di percorrere questa strada.
E’ però certo che il nostro debito sia ormai un macigno da oltre 1.900 miliardi di euro, circa il 120% del Pil, su cui abbiamo sinora pagato ogni anno interessi per circa 70 miliardi di euro. Con rendimenti dei titoli decennali ormai al 6% e in assenza di un rapido miglioramento della situazione internazionale, questa cifra è destinata ad aumentare. Già per il 2012 il governo ha preventivato una spesa per interessi pari al 5,3% del Pil ossia verso quota 80 miliardi ed è un calcolo improntato a un certo ottimismo. E’ facile capire che questo fardello sarà sostenibile solo a fronte di sacrifici sempre maggiori inflitti a cittadini e imprese e attraverso una frettolosa svendita di beni pubblici. Con la concreta possibilità che alla fine questi sforzi non siano comunque sufficienti e con inevitabili ripercussioni in termine di coesione sociale del paese.
Fino a quando si può reggere il gioco? E’ vero, se in tempi normali la sola Italia decidesse di punto in bianco di venir meno anche solo in parte ai suoi impegni debitori e finirebbe in fondo alla lista dei “cattivi” e pagherebbe a lungo gravi conseguenze. Ma questi, ripetiamolo, non sono più tempi “normali”. Le agenzie di rating si aspettano per i prossimi anni un generale deterioramento della situazione dei debiti sovrani e i precedenti storici relativi ai periodi di grandi crisi rendono verosimile la previsioni di un’ondata di default. Rischiare e muoversi per primi potrebbe alla fine rivelarsi la mossa giusta.