Non piace al Vaticano il documento striminzito che la Cei ha preparato sul contrasto agli abusi sessuali. Un testo che mette in luce la ferrea volontà dei vescovi di spogliarsi di ogni “responsabilità nazionale” nel gestire il fenomeno della pedofilia nel clero, scaricando l’onere sui singoli presuli e la Congregazione vaticana per la Dottrina della fede. Proprio dalla Congregazione – il vecchio Sant’Uffizio – è venuto all’improvviso un rabbuffo indirizzato alla Cei.
Intervistato dalla rivista Jesus, il Promotore di giustizia mons. Charles Scicluna – che agisce praticamente da procuratore generale – avverte abbastanza seccamente che la Congregazione “non è in grado di dare un giudizio sulle Linee-guida della Cei, perché questa valutazione non è ancora stata fatta”. Avverrà dopo l’estate “con l’aiuto di esperti”. E aggiunge, Scicluna, a tutti gli episcopati verranno dati, ove necessari, “suggerimenti molto concreti per l’integrazione di alcuni punti o la revisione di alcune enfasi”.
RISPETTO alle regole, che si sono date molte conferenze episcopali europee ed extraeuropee, il documento della Cei fa acqua da tutte le parti. Non si tratta solo del rifiuto di denunciare i criminali con la motivazione che il vescovo “non è pubblico ufficiale” (anche papa Ratzinger non è a favore di un automatismo delle denunce). Piuttosto è il rifiuto totale a organizzare con strutture specifiche il contrasto alla pedofilia ciò che rende sospette le Linee-guida della Chiesa italiana.
Mons. Scicluna già nel 2010, in un’intervista all’Avvenire, aveva affermato esplicitamente: “Mi preoccupa (in Italia) una certa cultura del silenzio che vedo ancora troppo diffusa”. Adesso anticipa alcune nuove direttive. La Chiesa, sottolinea, deve impegnarsi “a non agire mai per dissuadere le vittime dal loro diritto di denuncia allo Stato. È un impegno che è bene esplicitare”. Punto secondo: negli Stati Uniti, spiega, esiste l’“obbligo di denuncia e questo rende la vita facile, non bisogna nemmeno discutere”. Però anche negli Stati, come l’Italia, dove l’obbligo non sussiste “bisogna senz’altro aiutare le persone, che vorrebbero denunciare”. E soprattutto “in ogni caso impegnarsi a non creare ostruzionismo alla ricerca legittima della giustizia”.
È UN PUNGOLO alla Cei (e ad altri episcopati inadempienti) di farsi parte molto attiva nel portare i preti-predatori davanti alla giustizia civile. Il lato allarmante della situazione italiana è la cappa del silenzio che la gerarchia ecclesiastica tenta di imporre sul tema dell’organizzazione concreta del contrasto agli abusi. Con le più speciose motivazioni. Ad esempio viene ripetuto spesso a mezza bocca: “In Italia il problema non è così grave come altrove”. Oppure: “Il vescovo è il supremo responsabile in ogni diocesi”.
Quando a maggio furono diffuse le Linee-guida della Cei, il giornale dei vescovi Avvenire evitò di pubblicare uno specchietto sulla situazione europea, mettendo a confronto le regole italiane con quelle di altri Paesi. Il nuovissimo Inserto-Donna dell’Osservatore Romano, che si avvale della collaborazione di personalità anche non cattoliche, si è ben guardato dall’affrontare l’argomento. Il Fatto ha già documentato la maniera precisa con cui a livello nazionale e diocesano procede la Chiesa tedesca. Con referenti e “persone di contatto” a cui ovunque le vittime possono rivolgersi. In Olanda l’episcopato ha affidato due anni fa ad un protestante, ex ministro ed ex sindaco dell’Aja, Wim Deetman, la guida di una commissione indipendente sui casi di pedofilia nel clero dal 1945 ad oggi. Il rapporto conclusivo, che rivela gravi responsabilità delle gerarchie, è stato già presentato nel dicembre scorso! Il documento dei vescovi francesi, intitolato “Lutter contre la pedophilie”, è lapidario: “Quando si è a conoscenza di un delitto (ricordiamo che lo stupro è un delitto) o di fatti precisi relativi a privazioni, maltrattamenti o violenze sessuali su minori al di sotto dei 15 anni, si deve informare la giustizia. In questi casi, non si può e non si deve tener conto della natura del presunto aggressore. Sia un sacerdote, un educatore laico o un familiare la denuncia è obbligatoria”.
In Svizzera i vescovi hanno deciso che le vittime vanno aiutate , a seconda dei casi, non solo in forma “pastorale e psicoterapeutica (ma) anche finanziaria”. Nelle diocesi svizzere “vengono nominate una o più persone di contatto che ricevono le informazioni e le denunce di abusi sessuali”.
In Austria la commissione indipendente, istituita nel 2010 dal cardinale Schoenborn e guidata da una donna, Waltraud Klasnic ex governatrice della Stiria, nel primo anno aveva già risarcito 58 vittime. I risarcimenti sono suddivisi in quattro categorie; 5.000, 15.000, 25.000 euro o anche importi superiori.
Se la Cei volesse, potrebbe integrare anche subito le sue Linee-guida. Ma ha paura di scoprire gli scheletri negli armadi. Eppure tutti sanno che i ritardi alla fine verrano pagati moralmente a caro prezzo.